1- Teorie relative al problema mente-corpo
Theories related to the mind-body problem
Le teorie dualistiche assumono l’ipotesi che la mente e il corpo sono due generi fondamentali di enti o di principi. Oggi si hanno essenzialmente tre principali forme di dualismo: a) – il dualismo delle sostanze (o dualismo forte), in base al quale il corpo e la mente sono sostanze differenti, la prima materiale, la seconda immateriale e caratterizzata da stati altrettanto immateriali, in altre parole una sostanza che pensa; b) – il dualismo delle proprietà, che ammette l’esistenza di un solo genere di sostanza che possiede proprietà fondamentali sia fisiche che mentali, queste ultime non riducibili alla fisica, come dire che esistono enti fisici aventi anche proprietà non fisiche; c) – il dualismo dei predicati,[1] secondo il quale i predicati riferiti al mondo mentale non sono riducibili ai predicati del mondo fisico e sono ritenuti indispensabili per la descrizione di un mondo causalmente chiuso.
Alle teorie dualistiche si oppone il monismo,[2] che si articola in tre concezioni distinte: 1), il monismo idealista (mentalismo, o semplicemente idealismo), che assume l’esistenza della sola realtà mentale, laddove ciò che chiamiamo “materia” altro non è che una sua manifestazione; 2), il monismo del doppio aspetto, in base al quale i fenomeni materiali e quelli mentali sono solo due aspetti, o attributi, di una stessa realtà; 3) il monismo materialista (o materialismo), che rappresenta oggi la posizione filosofica più diffusa, il quale sostiene che tutti i fenomeni della realtà cosmica, inclusi i fenomeni mentali, sono riconducibili all’esclusivo comportamento di un’unica sostanza di genere materiale, cosicché il mondo mentale è ritenuto un prodotto dei processi materiali. Dal materialismo si è fatto strada il fisicalismo, in base al quale gli stati mentali sono soltanto stati fisici del cervello.
Da oltre un cinquantennio, il dualismo delle sostanze è stato abbandonato dalla maggior parte degli studiosi, che hanno preferito impegnarsi nella ricerca di una possibile descrizione materiale dei fenomeni mentali. Il motivo risiede nel fatto che il dualismo forte implica un problema non affrontabile sul piano scientifico. Infatti, risulta del tutto incomprensibile come due sostanze ontologicamente distinte possano influenzarsi fra loro.
Si è andato così affermando lo studio della mente e delle sue manifestazioni esteriori dipendente dalla neurofisiologia, ovvero lo studio dei processi fisici, o neurali, che si svolgono nel cervello. Il suo obiettivo consiste nel fondare la “scienza del comportamento”.
2- Comportamentismo e cognitivismo
Behaviourism and cognitivism
Il comportamentismo si è inizialmente sviluppato negli Stati Uniti negli anni quaranta del Novecento, per poi diffondersi anche in Europa. La sua indagine è indirizzata alla comprensione di come i processi neurali siano correlati a specifici comportamenti degli esseri viventi dotati di un apparato percettivo e intellettivo molto evoluto e, dunque, soprattutto degli esseri umani, che sono peraltro dotati di un linguaggio sofisticato..
Nel corso delle investigazioni a carattere sperimentale è venuta ad imporsi l’ipotesi “cognitivista”, in base alla quale negli umani dovrebbero innescarsi processi mentali responsabili di funzioni piuttosto complesse, come ad esempio la memoria, le associazioni di idee, la facoltà di accedere ai propri stati interiori e la loro riportabilità, vale a dire la possibilità di renderli disponibili attraverso resoconti verbali. Tutte queste funzioni sembrano riconducibili a qualcosa di ben più complesso che a puri e semplici comportamenti.
Il cognitivismo diviene così il nuovo approccio scientifico allo studio delle relazioni intercorrenti tra la complicata attività neurale del cervello e le varie funzioni cognitive. Attraverso una sempre più elaborata attività sperimentale, molte di queste funzioni riescono a trovare una spiegazione scientifica grazie all’utilizzo di una tecnologia in incessante evoluzione e all’impiego di particolari metodi non invasivi, quali la Magnetoencefalografia, la Mappatura di Risonanza Magnetica (IRM, dal francese Imagerie par Résonance Magnétique) e la Tomografia con Emissione di Positoni (PET, dall’inglese Positons Emission Tomography). I risultati acquisiti inducono gli studiosi a convincersi che in un futuro più o meno lontano potrà essere spiegata l’intera varietà delle funzioni neurofisiologiche e cognitive.
C’è però un aspetto dell’attività mentale che il cognitivismo, per un lungo periodo di tempo, ha completamente tenuto fuori dal suo programma investigativo: la coscienza, e cioè il vissuto in prima persona dell’esperienza. Le prime proposte dirette a gettare le basi per una scienza della coscienza risalgono a poco più di un paio di decenni or sono. Si tratta tuttavia di sfide estremamente ambiziose in cui si trovano impegnati diversi filosofi della mente e neuroscienziati, generalmente attestati su premesse di fondo in conflitto fra loro, e solo in alcuni casi sfumatamente diverse, ma per ora nessuno di essi è in grado di vantare una promettente impostazione teorica. Ciò è dovuto alla presenza di una grande difficoltà, consistente nella ricerca di una correlazione tra i meccanismi funzionali innescati dall’attività neurale del cervello umano e l’esperienza conscia, vale a dire quel fenomeno che consente al possessore di quel cervello di accorgersi di specifici effetti, di patirli dal suo esclusivo punto di vista.
Il filosofo statunitense Thomas Nagel (1937), nelle sue riflessioni sul fenomeno dell’esperienza cosciente, sostiene che
è un fenomeno ampiamente diffuso. Lo si può osservare a diversi livelli della vita animale, anche se non possiamo esserne certi per quanto riguarda gli organismi più semplici […]. Non c’è dubbio che esista sotto innumerevoli forme per noi totalmente inimmaginabili, su altri pianeti e in sistemi solari attraverso l’universo. Ma a prescindere dalla varietà di forme in cui potrebbe presentarsi, il fatto stesso che un organismo abbia un’esperienza cosciente significa, in sostanza, che ad essere quell’organismo si prova qualcosa.[3]
Inoltre, Nagel precisa che
fondamentalmente un organismo vive sati mentali coscienti se e solo se si prova qualcosa ad essere quell’organismo – se l’organismo prova qualcosa ad essere quello che è.
Potremmo chiamare tutto ciò il carattere soggettivo dell’esperienza: questo resta inafferrabile per le tipiche analisi riduzioniste del mentale elaborate negli ultimi anni […]. Il carattere soggettivo dell’esperienza non è infatti analizzabile nei termini di nessun sistema esplicativo di stati funzionali o intenzionali, dal momento che questi stati potrebbero essere attribuiti anche a un robot o un automa che si comportassero come uomini, pur senza avere alcuna esperienza soggettiva. [4]
3- Il problema difficile
The difficult problem
Finora non esiste una teoria della coscienza e neanche un abbozzo ampiamente condiviso per aprire la strada verso una sua plausibile comprensione, tanto che molti studiosi del mondo mentale, spesso indicati con il nome di “misteriani”,[5] si dichiarano convinti che una risposta al perché e al come la realtà cosmica contempli il fenomeno dell’esperienza cosciente sia assolutamente inaccessibile all’intelletto.
David J. Chalmers, uno dei più autorevoli filosofi della mente e autore di diversi saggi,[6] svolge un’attenta riflessione sulle più disparate teorizzazioni fino ad oggi proposte per tentare di rispondere alle ineludibili questioni affioranti nell’ambito della neurofisiologia e della neuroscienza: che cos’è la coscienza? Come possono la coscienza e tutti i fenomeni ad essa associati essere immediatamente e vividamente sperimentati in prima persona? Potrebbe la coscienza insorgere dai processi neurali che si svolgono nel cervello?
La prima preoccupazione di Chalmers consiste nell’isolare l’insieme dei “problemi facili” connessi all’idea di coscienza dal cosiddetto “problema difficile”. I primi sono suscettibili di una spiegazione scientifica relativamente semplice, in quanto possono essere studiati oggettivamente dalle neuroscienze e classificati come svolgimento di meccanismi neurali o computazionali. Tutto sommato, si tratta di spiegazioni di specifiche funzioni che, secondo Chalmers, pare abbiano a che fare esclusivamente con il mondo fisico. Per contro, il problema veramente difficile consiste nel chiedersi, come già Nagel prima di lui, perché mai i processi fisici che si svolgono nel cervello siano accompagnati dall’esperienza conscia, possano cioè accendersi, per usare una mia personale espressione, di luce propria.
Non nego – dice Chalmers- che la coscienza si origini dal cervello. Sappiamo, per esempio, che l’esperienza soggettiva della visione è strettamente collegata ai processi nella corteccia visiva. Tuttavia, è il collegamento stesso che ci rende perplessi. Sorprendentemente, l’esperienza soggettiva sembra emergere da un processo fisico. Ma non abbiamo nessuna idea di come o perché questo succeda.[7]
Alla domanda se la neuroscienza sarà in grado di aprire uno spiraglio verso la comprensione della coscienza, Chalmers risponde che ciò potrebbe accadere ad una sola condizione: che venga colmato quello che, nel 1983, il filosofo Joseph Levine aveva definito “iato esplicativo” (explanatory gap), che sia cioè costruibile un ponte di collegamento tra i processi fisici e l’esperienza soggettiva. Tuttavia, in base alle sue scrupolose argomentazioni, Chalmers si rende conto che tutti i metodi sperimentali oggi praticati dalla neuroscienza e dalla scienza cognitiva, nonché tutte le più moderne proposte teoriche in tale direzione, che spaziano dalle diverse forme di dualismo (ad esclusione del dualismo delle sostanze) alla teoria dell’identità (nota anche come “fisicalismo”), al funzionalismo (v. paragrafo 5) e al materialismo eliminativista,[8] in una misura o in un’altra falliscono nel loro compito. Nessuna di esse è infatti in grado di spiegare da quale proprietà o legge fisica si origini l’esperienza cosciente.
Per sperare di colmare la lacuna esplicativa, si richiederà una nuova teoria fondata su significative scoperte che potrebbero provenire dall’ambito della neurofisiologia o dallo studio dei processi algoritmici o, molto più ragionevolmente, dalla scoperta di qualcosa di nuovo a livello della fisica quantistica. Inoltre, sarebbe di grande aiuto l’eventuale soluzione di qualcuno dei noti misteri di quest’ultima.
La nuova teoria, nell’ipotesi che venga approntata, difficilmente sarà sottoponibile a test sperimentali e sarà quindi basata su procedimenti congetturali. In ogni caso, per sperare in una sua convincente elaborazione, sarà sicuramente necessario un ripensamento del metodo scientifico finora adottato per la formulazione delle teorie fisiche.
Pertanto, come credo, si dovrà essenzialmente fare affidamento alla fecondità dell’immaginazione e contare nella possibilità di intuire nuove proprietà fondamentali, o quello che Chalmers chiama l’“ingrediente supplementare”. Egli, ritenendo che l’esperienza conscia debba dipendere da processi fisici ma che tale dipendenza non possa essere derivata soltanto da leggi fisiche, afferma che
I nuovi principi di base postulati da una teoria non riduzionistica ci danno l’ingrediente supplementare di cui abbiamo bisogno per costruire un ponte esplicativo. Ovviamente, considerando l’esperienza come fondamentale, vi è un senso in cui tale approccio non ci dice perché primariamente esiste un’esperienza. Ma lo stesso accade per qualunque teoria fondamentale. Niente in fisica ci dice perché primariamente esiste la materia, ma non lo consideriamo un fatto che ostacoli teorie della materia. Alcuni elementi del mondo devono considerarsi fondamentali in qualunque teoria scientifica.[9]
Partendo da una posizione filosofica cui accennerò più avanti, Chalmers ritiene che certi criteri adottati per costruire le teorie fisiche, in particolare quelli basati su principi di semplicità ed eleganza e tali da suggerirci l’esistenza di leggi fondamentali, possano essere altrettanto validi per una teoria della coscienza. I principi che unificano i processi fisici e quelli esperienziali dovranno essere concepiti come esplicativamente fondamentali, e cioè non derivabili da leggi fisiche.
Ma una teoria dell’esperienza, sebbene possa beneficiare di attendibili fonti indirette, come ad esempio i resoconti verbali di soggetti studiati con i moderni metodi di indagine della neurofisiopsicologia e della scienza cognitiva, difetta di dati oggettivi. Ne consegue che qualunque teoria dell’esperienza, come tutte le teorie non empiriche, avrà pur sempre un carattere speculativo.
Condividendo l’ottimismo di Chalmers, non escludo affatto che, in futuro, una teoria ben formulata possa essere talmente convincente da essere generalmente condivisa. Tengo però a precisare che l’eventuale spiegazione della coscienza andrebbe incorporata in una riformulazione della teoria quantistica o, meglio ancora, in una teoria di completa unificazione dei campi. Solo su questi presupposti si potrebbe puntare alla descrizione di una vera e propria Teoria del Tutto, dunque inclusiva anche dell’esperienza coscia.
Ma a questo proposito aggiungerei un’ulteriore osservazione: l’eventuale Teoria del Tutto non potrebbe essere tale se si limitasse a descrivere le proprietà intrinseche e relazionali dei processi fondamentali, in quanto dovrebbe anche essere in grado di spiegare, contrariamente a quanto sostiene Chalmers, quale sia il reale fondamento ontologico di questa realtà processuale, la giustificazione della sua sussistenza e le modalità del suo operare (tornerò più avanti ad argomentare sulla ragionevolezza dell’ingrediente supplementare richiesto da Chalmers per una teoria della coscienza).
4- L’intelligenza e il pensiero cosciente
Intelligence and conscious thinking
Ognuno di noi, attraverso complicate reti di processi occorrenti all’interno del nostro organismo, a loro volta interagenti con reti di processi che si svolgono al suo esterno, vive (o patisce) in prima persona un’incessante varietà di esperienze: impressioni sensoriali prodotte da stimoli provenienti dal mondo esterno, stati emotivi interni, percezione del sé, associazioni di immagini mentali, ragionamenti, desideri, intenzioni, azioni, reazioni, progetti, e via dicendo.
Dato che ciascun essere umano vive un insieme di esperienze coscienti, è ragionevole inferire che, prima della comparsa della vita nel nostro universo, si svolgesse comunque una complessa varietà di processi evolutivi ed auto-organizzativi (sia pure privi, come si presume generalmente, di un benché minimo valore esperienziale). Volendo ipoteticamente aderire al materialismo e all’idea che in quell’era cosmica fossero all’opera meccanismi esclusivamente fisici (in accordo con le nostre teorie correnti) non associati ad alcun genere di proprietà protofenomeniche, verrebbe spontaneo concludere che una qualche forma di coscienza sarebbe apparsa imprevedibilmente solo ad un dato livello di complessità evolutiva di processi biofisici verificatisi in qualche parte del nostro universo, quantomeno sul pianeta Terra. Sulla base di questa ipotesi, chiamata “emergentismo”, talune proprietà, come ad esempio l’intelligenza e la consapevolezza, sarebbero sorte improvvisamente e incomprensibilmente nel corso della storia evolutiva delle strutture organismiche molto complesse.
Prima di approfondire l’argomento riguardante i fenomeni della realtà mentale e, in particolare, il fenomeno dell’esperienza conscia, vorrei ricordare le diverse posizioni filosofiche dei realisti di fronte al problema della relazione che intercorre tra mondo mentale e mondo fisico. Sebbene queste due realtà sembrino profondamente diverse fra loro, non è esclusa la possibilità di comprenderne la comune natura con i mezzi della scienza.
Osserverò innanzitutto che i realisti, nella loro stragrande maggioranza, non esitano a stabilire una distinzione tra due classi di enti o individui (così da me chiamati in alcuni contesti) con proprietà fondamentalmente diverse fra loro: la classe M degli individui definiti “materiali” (o “inerti”) e la classe V degli individui definiti “viventi”[10]. Gli individui della classe M hanno proprietà fisiche e la proprietà di interagire fra loro, mentre quelli della classe V hanno, oltre alle suddette proprietà, anche la capacità di riprodursi, la curiosità (come ad esempio quella di esplorare l’ambiente circostante), l’attenzione e, ad un dato livello di complessità, la facoltà di organizzare e programmare il proprio agire e di poterne essere anche pienamente consapevoli.
Tale distinzione rende chiaramente problematica la relazione che corre tra V e M, ovvero tra il mondo degli individui in grado di compiere osservazioni e il mondo degli individui che sono considerati esclusivamente oggetto di osservazione, in altre parole, tra una realtà caratterizzata da aspetti mentali e una realtà in cui questi aspetti sembrano essere del tutto assenti.
Come già precisato all’inizio del capitolo, i realisti che assumono l’esistenza di due diverse realtà come irriducibili l’una all’altra sono chiamati “dualisti” nel senso forte del termine. Costoro sono per lo più pragmatici e disinteressati alle questioni metafisiche, mentre alcuni di essi, come del resto anche alcuni sostenitori del monismo (v. Spinoza e Einstein nella nota 111) tendono ad abbracciare una visione mistica della realtà cosmica.
C’è poi una schiera di scienziati realisti chiamati “fisicalisti”, che oppongono al dualismo cartesiano un monismo fisicista. Questi ultimi si propongono come obiettivo la riduzione del mondo mentale alla supremazia ontologica del mondo fisico, cercando le risposte alle questioni concernenti le caratteristiche della mente, in particolare il fenomeno della coscienza, nel solo ambito della fisica, chiamandosi fuori, per così dire, dal riduttivo ambito della biologia. Esistono però biologi che sono contrari all’idea di poter ridurre il mondo mentale al mondo fisico ma che, al pari dei fisicalisti, sono convinti che non tutti gli individui, come ad esempio una medusa, un virus, una macromolecola o un elettrone, possano essere dotati di proprietà protomentali o di una sorta di barlume di coscienza.
Inoltre, ci sono fisicalisti che, partendo da posizioni filosofiche fra loro profondamente diverse, prendono in seria considerazione il fenomeno dell’emergentismo.[11] Ma come si vedrà in seguito, nessuna proposta riduzioniste[12] sembrerebbe in grado di portare ad una chiusura causale del mondo fisico. Pare invece, a detta di alcuni influenti filosofi, che tale obiettivo possa essere perseguito dalle sole proposte antiriduzioniste. Queste ultime forniscono spunti interessanti e l’acquisizione di alcuni risultati sperimentali per la spiegazione di specifiche funzioni cognitive, ma, come tutte le teorizzazioni finora divulgate, lasciano senza risposta la questione del come e del perché abbia luogo l’esperienza.
Ritengo ora opportuno occuparmi dei fisicalisti e, in particolare, di quegli scienziati convinti che tutti i fenomeni (sia fisici che mentali) della realtà cosmica siano inquadrabili, in linea di principio, in un’unica teoria fisica, in generale basata esclusivamente sull’ontologia dei campi, e dunque anche fiduciosi di poter unificare i campi quantistici al campo gravitazionale. Per sperare di raggiungere il loro obiettivo, tali scienziati dovranno però trovare il modo di rigettare o modificare alcune idee fondamentali della teoria quantistica e/o della relatività generale, al fine di ottenere una descrizione unificata del microcosmo e del macrocosmo, nonché di incorporare, ampliandola, la teoria dell’evoluzione di Darwin.
Il progetto fisicalista, da qualunque posizione filosofica intenda essere affrontato per una spiegazione di come colmare la lacuna esplicativa che separa il fisico dal mentale, appare dunque un’impresa talmente ambiziosa che la sua realizzazione dovrebbe confidare in risorse straordinarie della mente umana. Tale progetto, se volesse ad esempio basarsi sulla fisica delle particelle materiali, dovrebbe poter spiegare tutti i sistemi fisici, a cominciare da quelli convenzionalmente definiti “ elementari” (leptoni e quark) e risalire, attraverso una varietà di sistemi compositi (come ad esempio i protoni, gli atomi e le molecole) verso quelli ad alta complessità organizzativa regolati da meccanismi di retroazione e caratterizzati da una relativa autonomia, da sensibilità, percezione, curiosità, discernimento, apprendimento, comprensione, intelligenza, riflessione intellettiva, per giungere infine a quei processi responsabili dell’esperienza conscia, che è il solo fenomeno assolutamente indubitabile e pertinente quantomeno agli esseri umani.
Nel fronteggiare lo spinoso problema della causazione mente-corpo, prenderò in considerazione alcune particolari posizioni filosofiche del fisicalismo, tutte fiduciose nella possibilità di una descrizione scientifica delle manifestazioni del mondo mentale.
5- Il Funzionalismo, o Scienza dell’Intelligenz Artificiale forte
Functionalism, or Scince of strong Artificial Intelligence
L’intelligenza Artificiale , brevemente AI (Artificial Intelligence), è una branca della scienza di competenza degli informatici, degli ingegneri, dei filosofi della mente e dei neuroscienziati che studiano i meccanismi responsabili dei comportamenti e delle facoltà cognitive dell’uomo, e il suo scopo è di riprodurli in macchine controllate da computer opportunamente programmati.[13]
La scienza dell’AI opera in due ambiti fondamentalmente diversi, uno chiamato “forte” e l’altro “debole”. Il primo[14] rappresenta un punto di vista piuttosto ambizioso del fisicalismo ed è anche chiamato “funzionalismo”. Esso sostiene che le caratteristiche proprie del mondo mentale, come intelligenza, comprensione e consapevolezza, sono il risultato emergente da calcoli complicati e appropriati e che, in linea di principio, possono essere non solo completamente imitate da una macchina controllata da un opportuno programma basato sulla computazione, ma conferire a una tale macchina anche le stesse caratteristiche pertinenti al cervello umano, in altre parole, metterla in condizioni di avere pensieri e consapevolezza di sè.
L’idea di base dell’AI forte si ritrova negli scritti dell’empirista Hobbes che, nel Leviatano, sosteneva che “ragionare non è nient’altro che calcolare le conseguenze dei nomi univocamente definiti”. Vi sono poi alcuni studiosi dell’AI forte che si spingono ben oltre, in quanto fiduciosi che in un futuro non troppo lontano i calcolatori intelligenti riusciranno a superare di gran lunga tutte le abilità degli esseri umani, ad acquisire la capacità di riprodursi e ad evolversi imprevedibilmente, forse fino al punto di acquisire un completo dominio conoscitivo del nostro universo. Non è difficile immaginare che un simile scenario porrebbe degli interrogativi inquietanti. Quale ruolo avrebbero gli umani? Sarebbero forse un genere di esseri inferiori del tutto incapaci di comunicare con quei sistemi superintelligenti che essi stessi hanno potuto creare? La razza umana sarebbe destinata all’estinzione?
Uno dei più noti avanguardisti del funzionalismo è Marvin Minski, instancabile studioso dei processi mentali e delle loro applicazioni in macchine computerizzate, che ha teorizzato La Società delle Menti, in cui sostiene come la mente sarebbe il risultato cooperativo di un insieme di “agenzie” preposte ciascuna a svolgere una particolare funzione cognitiva. Le agenzie comunicherebbero fra loro attraverso connessioni, in modo da formare complessivamente un sistema strutturato gerarchicamente. Minski ha anche introdotto la nozione di “frame” (cornice), una struttura che raccoglie tutte quelle informazioni che, associate fra loro, concorrerebbero a formare un dato concetto. I frames sono da lui descritti come interconnessi fra loro secondo uno schema molto articolato, in modo tale che “ogni componente di ciascun frame è collegato al frame che ne descrive la struttura.”(Cit. FF p.11).
Un’estremizzazione del funzionalismo consiste nel considerare l’universo come un immenso calcolatore e nell’ipotizzare che appropriati sottocalcoli da esso estrapolabili sarebbero in grado di produrre il fenomeno della consapevolezza.
Come già anticipato, esistono punti di vista in netta contrapposizione con quello dell’AI forte. Uno di essi è basato sull’ambito debole e afferma che l’esperienza cosciente è dovuta ad un’azione fisica del cervello e che un calcolatore è sicuramente in grado di simulare una qualsiasi azione fisica, inclusi dunque i comportamenti degli esseri umani, ma che una qualsiasi simulazione, per quanto sofisticata, suggestiva e perfino tale da trarre in inganno un soggetto umano, non può pervenire a possedere consapevolezza di ciò che sta facendo.
Un secondo punto di vista interessante consiste nel sostenere che un’appropriata azione fisica del cervello è in grado di suscitare consapevolezza e che questa è un genere di proprietà non computabile, per cui nessuna macchina basata sul computo, per quanto complessa e dotata di una memoria illimitata, potrebbe mai eguagliare tutte le caratteristiche degli esseri umani. Infine, un terzo punto di vista liquida in modo sbrigativo il problema della consapevolezza, perché considerato assolutamente estraneo al dominio della scienza.
Riassumendo, la fisica di cui disponiamo si chiede se ogni azione fisica possa, in linea di principio, essere simulata oppure no da un calcolatore. Si può rispondere, come si è visto nel IV capitolo, che il teorema di incompletezza di Gödel stabilisce che un qualsiasi sistema deduttivo è incompleto, ovvero che nell’ambito della logica matematica esiste una limitazione alle possibilità esplicative basate sul computo. Analogamente, in ambito fisico, Alan M.Turung (1912-1954), lo scienziato che ha dato l’avvio all’era del computer, dimostra che un robot controllato da un qualsivoglia calcolatore non è in grado di fornire una risposta a tutte le questioni formulate sulla base di un corretto formalismo simbolico, in quanto ve ne sono alcune che comportano il cosiddetto “halting problem” (problema dell’arresto). In altre parole, ci sono domande alle quali il computer reagisce seguitando a girare ad oltranza senza dare una risposta.
Pertanto, dato che il cervello è una struttura fisica, ci si chiede come sia possibile che in esso abbia luogo l’esperienza consapevole ricorrendo a processi non computazionali. Ci si chiede anche se tali processi responsabili della consapevolezza siano davvero processi fisici, oppure processi con particolari caratteristiche che la scienza odierna non ha al momento la più pallida idea di come concepire e descrivere.
In gran parte, gli scienziati tendono ad affrontare il problema della coscienza seguendo un programma riduzionista. Un rilevante esempio di questa tendenza è il funzionalismo di Minski al quale ho appena accennato.
Vi sono poi alcuni studiosi riduzionisti che sperano di individuare i circuiti cerebrali responsabili dell’esperienza cosciente o, più propriamente, i cosiddetti “correlati neuronali della coscienza” (neuronal correlates of consciousness, brev. NCC).
Tra gli scienziati che si son messi alla ricerca degli NCC, il più autorevole è Francis Crick (scopritore, insieme a James Watson, del DNA). Egli è convinto di averli trovati ed è giunto alla conclusione che l’esperienza si rispecchia in un insieme di processi che si snodano in fasci di neuroni; è soprattutto convinto che solo lo studio approfondito dei meccanismi di interazione tra i singoli neuroni possa fornire dati sperimentali inoppugnabili da utilizzare per la costruzione di una teoria della coscienza. Inoltre, nel 1990, Crick e il suo discepolo Cristof Koch hanno elaborato una teorizzazione della coscienza basata sulla neurobiologia, più precisamente sulle oscillazioni (comprese fra 35 e 75 cicli al secondo) delle scariche neuronali della corteccia cerebrale. Essi presumono che
le oscillazioni siano la base della coscienza. In parte perché le oscillazioni sembrano correlate alla consapevolezza in numerose modalità differenti – all’interno dei sistemi visivo e olfattivo, ad esempio – e perché suggeriscono un meccanismo grazie al quale può essere ottenuto il legame dei contenuti informazionali. Il legame è il processo con cui elementi di informazione su una singola entità rappresentati separatamente vengono uniti per essere utilizzati da processi successivi, come nel caso in cui l’informazione sul colore e sulla forma di un oggetto percepito viene integrata da vie visive separate […]. Crick e Koch ipotizzano che il legame si possa ottenere con oscillazioni sincronizzate di gruppi neuronali che rappresentano contenuti rilevanti. Quando due elementi di informazione sono legati insieme, i gruppi neuronali rilevanti oscilleranno con la stessa frequenza e con la stessa fase. [15]
Questa proposta, propriamente definita “neuroriduzionista”, con la quale i due scienziati vorrebbero lasciar intendere che le suddette oscillazioni costituiscano i correlati neuronali dell’esperienza cosciente, non risolve affatto il problema difficile. Crick e Koch, sebbene abbiano il merito di aver svolto una grande mole di lavoro scientifico per la spiegazione di specifiche funzioni cerebrali (in particolare la funzione visiva) , non forniscono una risposta alla domanda “perché mai le oscillazioni sincronizzate delle scariche neuronali danno origine all’esperienza soggettiva?”
6- L’approccio fisicalista di Roger Penrose
Roger Penrose’s physicalist approach
Penrose ha dato prova di uno straordinario impegno nel voler dare una svolta al problema mente-corpo (o stati di coscienza-cervello), introducendo idee interessanti e argomentazioni rigorose in netta contrapposizione con quelle del funzionalismo. I suoi ragionamenti sono disponibili in tre saggi divulgativi piuttosto noti: La mente nuova dell’imperatore (MNI), Ombre della mente (OM), e Il grande, il piccolo e la mente umana (GPM), tutti e tre giunti all’attenzione della comunità scientifica e tuttora oggetto di accese discussioni.
Esporrò fra breve la tesi centrale di Penrose, senza però entrare in dettagli,[16] e riferirò poi alcune importanti osservazioni fatte in GPM dal suo collega filosofo e fisico Abner Shimony[17], nonché la replica di Penrose. Io stesso, nel mio piccolo, con tutto il rispetto nei confronti di questi scienziati, mi permetterò di evidenziare i punti essenziali del mio disaccordo con le loro idee e lo farò nelle conclusioni del presente capitolo che mi condurranno, successivamente, a descrivere una personale visione della realtà attraverso l’introduzione di un nuovo concetto geometro-meccanico.
Penrose, matematico dichiaratamente platonista,[18] ma anche scienziato con una profonda preparazione interdisciplinare, è impegnato da quasi un trentennio (con un suo gruppo di allievi dell’università di Cambridge) nella ricerca di una teoria fisica completa, la cosiddetta “gravità quantistica”, che dovrebbe anche essere in grado di descrivere il funzionamento di aree specifiche del cervello correlate al fenomeno della coscienza.
La tesi di Penrose si articola lungo tre direttive di fondo. In primo luogo, egli assume che le misteriose manifestazioni del cervello non sono basate esclusivamente sulla computazione e che, in particolar modo, la logica della matematica astratta, la cui comprensione è accessibile alla mente umana, non potrebbe essere programmata in un computer digitale, a prescindere da quanto sofisticata e ampia sia la sua memoria. Per dar forza a questa sua convinzione, Penrose porta come esempio, oltre al gioco degli scacchi, l’argomento della “stanza cinese” di John Searle, ideato per controbattere le tesi a sostegno dell’AI forte:
[…] Come dato di fatto, io non capisco una parola di cinese. […] Ma immaginiamo che io sia chiuso in una stanza con alcune scatole piene di simboli cinesi, e che abbia un manuale di regole, di fatto un programma informatico, che mi permette di rispondere a domande formulate in cinese. Ricevo simboli che, a mia insaputa, sono domande; guardo nel manuale cosa ci si aspetta che io faccia; prendo dei simboli dalle scatole, li manipolo secondo le regole del programma e mando fuori i simboli richiesti, che sono interpretati come risposte. Possiamo supporre che io superi il test di Turing per la comprensione del cinese, ma, nonostante ciò, non capisco una parola di cinese. E se, pur implementando il programma informatico appropriato, io non capisco il cinese, allora nessun altro computer lo capisce per il solo fatto di implementare il programma, perché nessun computer possiede qualcosa che io non abbia. […] Immaginiamo che nella stessa stanza mi siano rivolte anche domande in inglese, cui io rispondo. All’esterno, le mie risposte alle domande in inglese e a quelle in cinese appaiono ugualmente buone. Per entrambe supero il test di Turing. Ma vista dall’interno, la differenza è enorme. […] In inglese capisco ciò che le parole significano, in cinese non capisco niente. Per il cinese sono solo un computer.[19]
Penrose si serve poi di una variante del noto teorema di Gödel in una forma pressoché simile all’argomento proposto da Turing,[20]ancora una volta allo scopo di affermare che
la comprensione matematica non è riducibile alla computazione, ma è qualcosa del tutto differente che dipende dalla nostra capacità di essere consapevoli delle cose.[21]
In secondo luogo, Penrose afferma che per poter comprendere la relazione tra il corpo e la mente sarà richiesta una sostanziale modificazione del formalismo della QM, perché fondato su due principi di evoluzione dinamica radicalmente diversi e contraddittori fra loro: da una parte l’evoluzione unitaria, U, della funzione d’onda governata dall’equazione di Schördinger e, dall’altra, la sua riduzione, R. Il passaggio da U a R, ovverosia il passaggio dalle potenzialità, implicite nel principio di sovrapposizione di stati, alla loro attualizzazione attraverso un risultato ben definito, resta ancora incomprensibile. Si tratta insomma del problema della misura che è già stato ampiamente discusso nel Capitolo II.
Come terza e ultima cosa, Penrose propone di sostituire R con una procedura da lui definita “Riduzione Oggettiva”, brevemente OR, una forma del fenomeno della decoerenza[22] che non è basata sulla computazione e che richiede la gravità quantistica (teoria da lui ricercata con un certo ottimismo). Il fenomeno dell’OR si produrrebbe ad un dato istante attraverso le coppie di fasci di microtubuli, ciascuna delle quali è presente in un neurone e, più precisamente, all’interno del bottone a contatto sinaptico con la spina dendrica.[23]
[…] i microtubuli sono piccoli tubi costituiti da proteine chiamate tubuline. Queste […] sembrano avere (almeno) due differenti stati, o conformazioni, e sono in grado di passare da una configurazione all’altra […]. Secondo Hameroff, i microtubuli si comporterebbero come automi cellulari e attraverso di essi potrebbero venir spediti segnali complicati. Si pensi a due differenti conformazioni di ogni tubulino rappresentate dallo 0 e dall’1 di un computer digitale. Un singolo microtubulo potrebbe allora comportarsi come un computer, e di questo bisogna tener conto se si analizza cosa fanno i neuroni. Ogni neurone non si comporta solo come un interruttore; coinvolge invece moltissimi microtubuli, ciascuno dei quali è in grado di fare cose piuttosto complicate.[24]
Penrose sostiene che i due fasci di microtubuli all’interno di ogni neurone sono sufficientemente isolati dalle strutture circostanti da poter giustificare una coerenza degli stati quantistici in vaste aree del cervello di intensa portata, quanto basterebbe per spiegare la mente in termini globali. Quindi, prosegue con la convinzione che
La meccanica quantistica potrebbe risultare importante per la comprensione di questi processi. […] Potrebbe essere che, all’interno dei tubi, ci sia un qualche tipo di attività quantistica coerente a larga scala, qualcosa come un superconduttore. Movimenti significativi di masse sarebbero presenti solo quando tale attività inizia a essere accoppiata alle conformazioni dei tubulini (del tipo di Hameroff), in questo caso, il comportamento dell’“automa cellulare” sarebbe esso stesso soggetto alla sovrapposizione quantistica. […] ci dovrebbe essere un uguale tipo di oscillazione quantistica coerente che ha luogo all’interno dei tubi e che dovrebbe estendersi ad aree molto estese del cervello. […] Mi sembra che […] qualsiasi processo fisico responsabile della coscienza dovrebbe essere caratterizzato da una globalità di base. La coerenza quantistica, di certo, ha questa caratteristica. Perché essa sia possibile “a larga scala”, occorre un alto grado di isolamento come quello fornito dalle pareti dei microtubuli. Ma occorre qualcosa di più, quando le conformazioni dei microtubuli entrano in gioco. L’ulteriore grado di isolamento è garantito dall’acqua “in stato ordinato” appena fuori del microtubulo. L’acqua ordinata (di cui si conosce l’esistenza nelle cellule viventi) sarebbe anche verosimilmente un ingrediente importante di qualsiasi oscillazione quantistica coerente che abbia luogo all’interno dei tubi.[25]
Nella sua tesi (antiriduzionistica), Penrose ricorre a due concetti: quello di potenzialità e quello di intreccio. Il primo è introdotto per sostenere che in una rete di neuroni di data ampiezza ciascun neurone, trovandosi in una sovrapposizione di stati, esegue una cosiddetta “computazione quantistica” (ogni parte della sovrapposizione esegue il suo calcolo indipendentemente dal calcolo eseguito dall’altra o dalle altre parti della sovrapposizione), e il secondo (che è un concetto olistico e che Penrose preferisce definire “coerenza”) è da lui chiamato in causa per spiegare l’esecuzione dei suddetti calcoli. E poiché la sovrapposizione di stati di ciascun neurone si propaga ai due fasci del microtubulo in esso contenuto, si avrà una coerenza estesa a tutta la rete di neuroni di quella data ampiezza.
Infine, per giustificare l’attualizzazione degli stati di coscienza, Penrose fa intervenire l’OR (un’operazione che, in ragione del teorema di Gödel, spiegherebbe gli aspetti non computazionali dell’attività mentale), in grado di trasformare la coerenza globale di vaste aree del cervello (ovverosia l’intreccio delle sovrapposizioni quantistiche relative a un grande numero di microtubuli) in uno stato di coscienza ben definito o, in altre parole, in un’esperienza conscia che verrà vissuta dal possessore di quel cervello.
Come preannunciato, il quarto capitolo di GPM è dedicato ad un intervento di Abner Shimony, che indica alcuni passaggi della tesi di Penrose con i quali si trova d’accordo, come ad esempio la convinzione che saranno richieste molte idee della QM per la comprensione dei fenomeni mentali, così come anche la necessità di modificarne i procedimenti formali. Shimony individua però altri passaggi che non condivide affatto, soprattutto l’adesione di Penrose (comune a tutte le teorizzazioni dei fisicalisti e dei biologi) all’emergentismo, in base al quale le manifestazioni pertinenti alla mente sopravvengono improvvisamente ad un dato livello di complessità organizzata del mondo fisico.
In tutta onestà, Penrose dichiara di non saper tracciare una linea di demarcazione tra la coscienza dell’essere umano e quella di taluni esseri viventi. Tuttavia, egli lascia intendere che una tale qualità non sia posseduta da un’ampia varietà di individui a partire da un dato livello di non meglio specificata complessità biofisica in giù.
L’intervento che ritengo più interessante dello scritto di Shimony è una sorta di rimprovero rivolto a Penrose per non aver mai preso in considerazione e neppure menzionato nei suoi saggi il realismo organico di Alfred N. Whitehead (1861-1947),[26] in base al quale le manifestazioni del mondo mentale, che risultano evidenti in strutture organizzate complesse come gli esseri umani e, verosimilmente, in molte altre specie evolute, derivano da un livello ultimo di enti chiamati “occasioni attuali” o “quanta spazio-temporali”, dotati ciascuno di una qualità protomentale definita “immediatezza soggettiva e appetizione”. Benché ci siano evidenti analogie con le monadi di Leibniz, diversamente da queste, i quanta concepiti da Whitehead non sono enti assoluti e permanenti, ma processi fondamentali che si esprimono in modo monotono e iterativo. Via via che i quanta spazio-temporali e protomentali si organizzano in strutture più complesse, la soggettività cresce di intensità fino a diventare significativamente intensa negli esseri umani.
Shimony propone una modernizzazione della concezione panpsichista di Whitehead all’attenzione di Penrose allo scopo di suggerire alla sua tesi un possibile rimedio al problema della non derivabilità del mondo mentale dal mondo fisico, che rimane alquanto misterioso, come del resto rappresentano un mistero i fenomeni descritti dalla QM e, in particolare, il passaggio dalle potenzialità all’attualizzazione, senza dire poi della futura teoria della gravità quantistica (che Penrose abbozza in modo poco dettagliato e per la quale esprime la sua convinzione che sarà una teoria non computabile) e, infine, dell’incomprensibile fenomeno quantistico degli effetti non locali (v. cap. XII).
Come Shimony intenda modernizzare la concezione panpsichista di Whitehead non risulta affatto chiaro. Pare che voglia semplicemente suggerire a Penrose di ripensare la sua concezione fisicalista prendendo in considerazione l’idea di una protomente a livello quantistico. Shimony non gli fornisce però alcuno spunto significativo per poter tradurre la visione mentalista di Whitehead in chiave fisicalista, in quanto resta fermamente dell’idea che le manifestazioni pertinenti al mentale non possano trovare posto in una teoria fisicalista.
Inoltre, trovo insoddisfacente il fatto che Shimony basa la sua proposta sugli stessi principi della QM usati da Penrose: indeterminatezza, acausalità, probabilità, potenzialità e intreccio. Shimony tiene però a precisare che, nel suo tentativo di modernizzare le idee di Whitehead,
non usa la teoria quantistica come un surrogato dello stato ontologico del mentale, ma come uno strumento puramente intellettuale per spiegare l’immensa gamma di manifestazioni del mentale nel mondo, dalle espressioni più intrinseche a quelle di più alto livello.[27]
Infatti, egli osserva che se la QM fosse accolta come una teoria completa, e cioè non suscettibile di sostanziali cambiamenti, allora tutti i concetti sopra elencati dovrebbero essere considerati aspetti oggettivi della teoria.
Veniamo però al nocciolo del suo ragionamento. Anziché considerare il salto dalla coscienza alla non coscienza (salto che avviene anche in una struttura altamente evoluta come il cervello) come un cambiamento da una condizione mentale ad una condizione fisica, Shimony propone di considerarlo “come un cambiamento di stato dalla determinatezza alla indeterminatezza e viceversa. Nel caso particolare di un sistema semplice come un elettrone, non si può immaginare altro che una transizione dalla totale indeterminatezza di esperienza a un minimo barlume”.[28] Se poi si prende in considerazione, anziché un singolo elettrone, un insieme di sistemi atomici dotati ciascuno di pallidi aspetti mentali e si fa entrare in scena il concetto di intreccio, quest’ultimo
può plausibilmente generare un insieme ampio che contempli tutte le possibilità tra la non coscienza e la coscienza di alto livello.[29]
La teorizzazione di Penrose, osserva Shimony, è lacunosa perché in essa manca “un’idea del mentale come qualcosa di ontologicamente fondamentale nell’Universo”,[30] e perciò è insoddisfacente. Benché impostata in modo non dettagliato o, come la definisce lo stesso autore, “rudimentale”, una modernizzazione della concezione di Whitehead è, a mio parere, ricca di spunti interessanti per lo sviluppo di una teoria scientifica (tornerò su questo argomento nei paragrafi 8 e 9 – v. oltre).
Nella sua replica a Shimony, Penrose esprime la sua riconoscenza per i preziosi suggerimenti e dichiara che, pur non ignorando i lavori di Whitehead, non li ha mai sufficientemente approfonditi per potersi cimentare con le sue idee. Trova comunque piuttosto stimolante il tentativo di Shimony di modernizzare la filosofia dell’organismo di Whitehead e confessa di sentirsi anche disposto a credere che il mentale possa essere ontologicamente fondamentale nella realtà cosmica. Ribadisce poi l’importanza dell’intreccio affermando che, se nelle strutture di alta complessità organizzativa (come il cervello umano) in grado di processare le informazioni non avesse luogo il fenomeno dell’intreccio, non sapremmo a quali altri appigli rivolgerci per spiegare come possano emergere tutte quelle manifestazioni mentali di cui abbiamo esperienza diretta. Inoltre, ammette che le sue idee volte al tentativo di spiegare il funzionamento del cervello e il fenomeno della coscienza sono ancora abbastanza confuse.
Chiedendosi infine se e in quale misura gli effetti quantistici siano essenziali per spiegare l’occorrenza di pensieri consci, afferma che a questo riguardo sarà bene riflettere a lungo per evitare di avventurarsi in conclusioni troppo affrettate.
7- Alcune osservazioni sulla tesi di Penrose
Some observations on Penrose’s thesis
Esporrò adesso alcune mie personali osservazioni sulle idee proposte da Penrose, e poi sul fisicalismo in generale. Premetto che condivido due sue particolari convinzioni: la prima afferma che il funzionamento del cervello non è basato esclusivamente sulla computazione e la seconda che la fisica di cui attualmente disponiamo non è in grado di fornirci i mezzi per comprendere il fenomeno della percezione e, tantomeno, dell’esperienza cosciente. Ciò che invece non condivido è il modo con cui Penrose intende regolarsi per modificare la QM. Mi sembra infatti che egli si limiti a contestare il solo procedimento dinamico di riduzione della funzione d’onda, R, perché oscuro e fonte dei noti paradossi connessi al problema della misura, e a sostituirlo con la sua procedura OR, alla quale perviene con argomentazioni piuttosto forzate sulla fisiologia del cervello e con la quale non ottiene infine alcun risultato soddisfacente, visto che non fornisce alcuna spiegazione di che cosa sia l’esperienza conscia.
Penrose introduce la OR per il semplice fatto che, come osserva Hawking,
gli è in qualche modo necessaria dal momento che il teorema di Gödel implica che l’esperienza consapevole non sia computabile,[31]
non possa cioè essere genuinamente simulata da un computer (essendo questo basato su processi algoritmici).
Ciò che trovo poco convincente è il fatto che Penrose aspiri a render conto del mistero più profondo della natura, e cioè il fenomeno della coscienza, pur accettando tacitamente in blocco i vari misteri impliciti nella QM, alcuni dei quali da lui ritenuti peraltro inaccessibili alla mente umana e, più precisamente, quelli che egli definisce “misteri Z”[32], come ad esempio la non località quantistica.
Il mio punto di vista è alquanto diverso: la coscienza è un fenomeno che può essere spiegato soltanto sulla base di un monismo radicale (cui accennerò alla fine del capitolo), ma a condizione che possano essere dapprima risolti i paradossi e le anomalie che angustiano la QM. Quest’ultima, sebbene costituisca un apparato teorico straordinario in grado di fare previsioni accuratissime, non ci fornisce alcuna comprensione genuina della realtà fisica.
Diversamente da Penrose e da molti altri illustri scienziati, credo che la QM possa essere radicalmente reinterpretata su una base di concetti razionali e integrata alla gravità. Credo poi che sarà anche possibile comprendere le ragioni profonde per le quali entrambi i procedimenti dinamici, U e R, sui quali è fondata la teoria, benché contraddittori fra loro, siano così ben funzionali a tutti gli effetti pratici.
A questo punto mi viene da chiedere perché Penrose, anziché struggersi in annosi e complessi ragionamenti, non si sia mai preoccupato di escogitare delle strategie volte a mettere in discussione alcuni dei concetti incomprensibili della QM, quali l’indeterminismo intrinseco dei sistemi atomici, la sovrapposizione di stati, le probabilità non epistemiche, la non località, e via dicendo, né di prendere iniziative per mettere in dubbio la validità di alcuni dei principi della logica classica.
Forse non ci sono più studiosi disposti a seguire l’esempio di Einstein, che si prodigò instancabilmente ad escogitare esperimenti concettuali tesi a dimostrare l’esistenza oggettiva dei sistemi atomici e delle loro proprietà.
Se la convinzione di Einstein nella razionalità della realtà cosmica, basata cioè sui concetti di spazio tridimensionale, tempo e legge di causa, è stata ufficialmente screditata dagli esperimenti eseguiti nel 1982 da Aspect (i cui esiti risultano violare la disuguaglianza di Bell ed essere in accordo con quelli previsti dalla QM), non è escluso che quella convinzione possa essere rivalutata alla luce di nuove idee e nuovi risultati sperimentali.
Le conclusioni tratte da quegli esperimenti sembrano ancora discutibili, ma c’è solo una ristretta minoranza di fisici teorici disposti a contrastarle, ed essi restano comunque inascoltati dal dogmatismo che domina la gran parte della comunità scientifica.[33] Tuttavia, ammessa e non concessa la correttezza di quei risultati, l’eventuale fondatezza della non-località potrebbe non rappresentare un mistero necessariamente insondabile. Infatti, questo fenomeno è stato interpretato sulla base di risultati alquanto convincenti e generalmente condivisi, ma forse fuorvianti e, a mio modo di vedere, riconducibili ad una spiegazione razionale.
8- Osservazioni più generali sul fisicalismo
More general observations on physicalism
Non è difficile rendersi conto che il fisicalismo antiriduzionistico, se davvero intende essere una teorizzazione comprensiva tanto di entità fisiche quanto di entità mentali che siano non fisiche, sembra riproporsi in una forma di dualismo. In base a questo punto di vista, le entità mentali, benché ritenute compatibili con le leggi fisiche, non sono da queste deducibili, ma sopravvengono imprevedibilmente ad un dato livello di complessità organizzativa che, peraltro, non viene in alcun caso specificato in modo inequivocabile. Si può dunque obiettare che la definizione di “fisicalismo” così concepita, ovvero basata sul misterioso fenomeno della sopravvenienza di entità non fisiche su entità fisiche, non potendo superare il dualismo, si rivela del tutto inappropriata.
A questo genere di fisicalismo sembrerebbe allora preferibile quello basato sulla teoria dell’identità, secondo la quale il mentale si identifica con il fisico. Ma anche in questo caso, sia che si assuma il mentale come un qualcosa di non fisico, sia che lo si assuma come un qualcos’altro rispetto al fisico (ad esempio, che abbia una qualche familiarità con il fisico, pur non trascendendo il fisico), il dualismo non può essere evitato. Inoltre, va osservato che tutte le teorie antiriduzioniste basate sull’assunto che gli stati mentali sono stati fisici, diventerebbero, de facto nisi de iure, teorie riduzioniste. Queste considerazioni sembrano dunque implicare che la nostra concezione del mondo sia destinata a non potersi svincolare da una qualche forma di dualismo in tutti quei casi in cui si voglia assumere un punto di vista filosofico basato su una qualsiasi forma di monismo antiriduzionista.
Ritengo opportuno ricordare che la filosofia della mente e la scienza interessate alla soluzione del problema dell’esperienza cosciente sono state duramente criticate dallo psicologo William James (1842-1910) prima ancora che venissero sviluppate le idee e le tesi sopra descritte. Infatti, i tre principali punti di vista adottati oggi dagli studiosi della mente in favore del monismo sono tuttora criticabili alla maniera di James, non solo per la vaghezza e l’ambiguità delle diverse proposte, ma soprattutto per la loro inadeguatezza a compiere un passo significativo verso un pieno superamento del dualismo e a dare una risposta soddisfacente al perché e al come i processi fisici siano accompagnati dall’esperienza cosciente.
Noi non sappiamo che cosa sia il mondo in sé (an sich), non sappiamo se sia effettivamente materiale né se sia di altra natura, poiché, come osserva James in un suo discorso tenuto a Roma nel 1905 al V Congresso Internazionale di Psicologia sperimentale,
il mondo è soltanto un oggetto d’esperienza; e la condizione indispensabile per ciò, è che sia riferito a dei testimoni, che sia conosciuto da un soggetto […]. Oggetto e soggetto son le due gambe senza le quali pare che la filosofia non sappia fare un passo avanti.
Ci si chiede allora se sia possibile elaborare nuovi e appropriati concetti a sostegno di una coerente forma di monismo, e cioè tale da evitare gli ostacoli insormontabili in cui si imbattono i tortuosi ragionamenti dei filosofi, verosimilmente prigionieri di una razionalità fondata su categorie e principi logici fuorvianti.
Sul fronte delle concezioni antiriduzioniste riguardanti la relazione mente-cervello, tutte confluenti in qualche forma di dualismo, James ostenta il suo pragmatismo, sostenendo che i fatti che costituiscono la realtà e i fatti delle esperienze che di essi facciamo consapevolmente, nel momento in cui questi fatti si producono, sono gli uni del tutto coincidenti con gli altri, sono cioè un tutt’uno inseparabile. Coscienza e materia non corrispondono a due essenze di natura diversa fra loro, ma sono tutte e due la stessa esperienza. Ciò che viene chiamato “fisico” e ciò che viene chiamato “mentale”, ovvero oggetto esperito e soggetto di esperienza, altro non sono che semplici creazioni concettuali, sono infine distinzioni di ordine pratico. Coloro che si adoperano per farne distinzioni sul piano ontologico, sono tacciati da James come vittime di un modo di pensare perverso. James chiama “esperienza” la stoffa che egli ritiene comune a tutta la varietà delle cose esistenti, non importa che le si chiami “oggetti materiali”, “processi fisici”, “sogni” o “pensieri”.
C’è tuttavia un quarto punto di vista antidualistico che sembra ben più interessante degli altri e che gode oggi di un’ampia condivisione: il “monismo neutrale” prospettato da Russell nel 1927, in base al quale la realtà del mondo è fatta esclusivamente di eventi che non sottendono alcuna sostanza. Pertanto, agli eventi non è associata né una sostanza materiale né una sostanza mentale. Ciò che abitualmente viene distinto in materiale e mentale deriva da uno stessa entità chiamata da Russell “sostanza neutrale”.[34]
Benché Russell non si spinga oltre l’assunto di una tale sostanza, non si cimenti cioè a proporre un’ontologia degli eventi naturali, ho voluto ricordare questa sua particolare forma di monismo, non solo perché è stata fonte di ispirazione per il lavoro svolto recentemente da alcuni studiosi, in particolar modo da Chalmers, nell’intento di poter costruire un ponte esplicativo tra attività mentale e attività cerebrale, ma anche perché io personalmente la considero, fra tutte le idee filosofiche note, la più ragionevole base di partenza per l’eventuale formulazione di una Teoria della Coscienza.
9- Accenni ad alcune teorie del doppio aspetto
A few notes on some “double aspect theories”
Nella sua tesi chiamata “dualismo naturalistico”, Chalmers (v. precedente §3) sostiene che la coscienza fenomenica è costituita da proprietà intrinseche delle entità fisiche fondamentali,[35] e che dunque essa è uno degli elementi basilari della natura. La sua interpretazione dualistica consiste nell’attribuire alle unità fondamentali della natura proprietà protofenomeniche (o protoesperienziali) e proprietà fisiche. Dalle relazioni tra dette unità ha origine la fisica, mentre dalle loro proprietà protofenomeniche ha origine la coscienza. Sulla base di tali assunti, il filosofo e studioso di scienze cognitive Andrea Lavazza osserva che la concezione di Chalmers
è compatibile con la chiusura causale del mondo fisico e con la struttura della teoria fisica, capace di superare le difficoltà della causazione mentale […]. Esistono proprietà neutrali fondamentali (protofenomeniche) che costituiscono sia il dominio fisico sia quello fenomenico. Ne discende un panprotopsichismo: tutto è dotato di almeno una minima capacità di esperienza cosciente (anche un sasso o un termostato).[36]
Sembra così tornare alla ribalta l’idea che Shimony ha suggerito a Penrose, quella di prendere in seria considerazione la filosofia dell’organismo di Whitehead (basata dul panpsichismo) per modernizzarla in chiave fisicalista. Qui nasce però la questione di come concepire l’unità minima di coscienza in natura.
Il filosofo Galen Strawson,[37] in modo più semplice e diretto, sostiene la validità di una concezione panpsichista, in quanto
necessaria (e non voluta) per uscire dall’impasse di chi crede fermamente nel fisicalismo (ribattezzato ‘monismo realistico’) e non può negare l’esistenza dell’esperienza cosciente.[38]
La formulazione di una teoria della coscienza appare tuttora un obiettivo difficilmente raggiungibile. Tutte le teorie finora proposte sul problema della coscienza hanno carattere speculativo. Escludendo quelle che negano il fenomeno e quelle che lo considerano un mistero inaccessibile all’intelletto, rimangono quelle che, pur prendendo sul serio il problema, non pervengono ad alcuna formulazione convincente, soprattutto perché sono tutte basate esclusivamente sul linguaggio filosofico (che, a mio giudizio, rimane improduttivo senza il supporto di un innovativo linguaggio per descrivere il mondo fisico e di un linguaggio matematico che non si riduca alla pura astrazione, ad esempio quello della topologia, dove i concetti si congiungono a immagini dello spazio fisico).
Alcuni studiosi ottimisti confidano nei futuri progressi delle scienze cognitive, ma soprattutto sembrano non ignorare queste ultime osservazioni, in quanto non escludono che si possano trovare connessioni significative fra argomenti riguardanti ambiti di conoscenza apparentemente eterogenei, attraverso le quali si riuscirebbe forse a scoprire lo schema logico che collega in modo unitario tutti i pezzi della realtà cosmica.
Fra gli ottimisti incontriamo Chalmers. Egli concorda con altri filosofi che il problema della lacuna esplicativa tra processi fisici ed esperienza non implica necessariamente che si tratti di una lacuna metafisica, e dunque non interpretativa. Infatti, non si può escludere che l’esperienza sia di natura fisica, che sia insomma un fenomeno in qualche modo descrivibile in termini meccanici dello spazio tridimensionale.
In ogni caso – afferma Chalmers – questa posizione ammette ancora uno iato esplicativo tra processi fisici ed esperienza. I principi che uniscono l’elemento fisico e quello esperienziale non saranno derivabili dalle leggi della fisica, tali principi vanno quindi considerati esplicativamente fondamentali. Siamo già in posizione di comprendere certi fatti centrali della relazione tra processi fisici ed esperienza e delle regolarità che li connettono. Una volta messa da parte la spiegazione riduzionistica, possiamo riconsiderare quei fatti in modo da farne gli elementi di un teoria non riduzionistica della coscienza e i vincoli alle leggi fondamentali che costituiscono una teoria ultima.[39]
Con questa premessa, Chalmers si impegna a proporre una sua tesi sul fenomeno della coscienza, iniziando col prendere in considerazione due principi: il principio di coerenza strutturale e il principio di invarianza organizzativa.[40]
Chalmers è ben consapevole che i suddetti principi sono di alto livello e che non si trovano al livello giusto per
costruire le leggi fondamentali di una teoria della coscienza. Essi agiscono tuttavia come forti vincoli. Ciò che ancora manca sono i principi basilari che si adattino a questi vincoli e che in definitiva possono spiegarli.[41]
La tesi di Chalmers è fondata sulla teoria dell’informazione di Shannon e sul principio del doppio aspetto.
Dove vi è informazione – spiega l’autore – vi sono stati informativi radicati in uno spazio informativo.[42]
L’informazione avrebbe dunque due aspetti fondamentali, uno fisico e uno esperienziale.
Non è qui il caso di entrare nel merito delle argomentazioni di Chalmers essenzialmente per due motivi. In primo luogo, i suoi ragionamenti hanno carattere esclusivamente congetturale e, in secondo luogo, la sua premessa iniziale di scartare l’ipotesi riduzionistica è, dal mio punto di vista, fuorviante e responsabile dell’impossibilità di formulare una teoria della coscienza fondata, anziché sull’idea del doppio aspetto degli stati informativi, su una posizione puramente monista, vale a dire su un unico insieme di processi elementari, o unità dello spazio-tempo, aventi la proprietà di essere fisicamente esperienziali. Ancor meglio, ciascuna unità basilare dello spazio-tempo dovrebbe essere concepita come immateriale, ed avere un solo aspetto che sia contestualmente fisico ed esperienziale.
10- Ulteriori osservazioni sulla tesi di Penrose
Some other observations on Penrose’s thesis
I fisicalisti antiriduzionisti si ritrovano in una situazione di grande incertezza quando si impongono di stabilire un confine[43] tra gli individui dotati di coscienza e quelli che ne sono privi. Penrose, ad esempio (al pari di altri fisicalisti, biologi e studiosi di scienze cognitive), assume che certi individui evoluti sono dotati di una coscienza non molto dissimile da quella umana e che dunque sono anch’essi soggetti di percezioni coscienti. Ma a lui sembra inaccettabile l’idea che questa qualità chiamata coscienza (o consapevolezza), nel discendere la scala evolutiva dei sistemi biofisici, possa sfumare, attenuandosi di intensità di gradino in gradino, passando cioè dalla coscienza di ordine superiore ad una coscienza primaria, ad esempio quella di un cane, e poi ad una di ordine inferiore, ad esempio quella di un bruco, e poi ancora verso e oltre il confine dei sistemi chimici e fisici, senza necessità che venga ad essere del tutto soppressa.
Ovviamente, ad ogni livello meno complesso di organizzazione, anziché usare il termine coscienza, riterrei più appropriato che si convengano termini meno forti, quali auto-sensibilità, auto-gestione, auto-azione o, meglio ancora, un’espressione del tutto generale come, ad esempio, esperienza vissuta da un esclusivo punto di vista.[44] Sto insomma parlando di processi fisici che godono di una relativa autonomia organizzativa e che sono distinguibili in una gerarchia di livelli di complessità numericamente limitati, tutti caratterizzati dall’autoriferimento, a partire da un livello base di processi elementari.
Con ciò intendo sostenere che anche il livello ultimo (ad esempio, un semplice loop associato allo spin dei sistemi atomici che descriverò nel prossimo capitolo) possa essere un processo fisico con una sia pur pallida familiarità con ciò che chiamiamo “esperienza”. In questo senso, esisterebbero diversi livelli di esperienza, ciascuno riducibile a quello sottostante, fino a giungere al livello fondamentale che dovrebbe essere caratterizzato da un minimo grado di esperienza. Quest’ultimo dovrebbe consistere in unità meccaniche dello spazio, ciascuna in grado di patire gli effetti del suo agire su se stessa e del suo interagire con altre unità (mi sto esprimendo contro l’atomismo radicale e a favore dell’esistenza di processi elementari immateriali).
Che cosa ci potrebbe convincere che il fenomeno dell’esperienza cosciente si attenui man mano che si scende dal livello di complessità organizzativa proprio degli esseri umani a livelli di minore complessità, per poi spegnersi improvvisamente ad un qualche livello di realtà biologica, chimica o fisica, come ad esempio quello di una zanzara, di un batterio, di una macromolecola o di un elettrone?
Una delle domande che Penrose non si pone nella sua tesi e che mi sembra di rilevante importanza è la seguente: che cosa hanno in comune tutte le varietà di individui che vanno dai sistemi atomici agli esseri umani? Consideriamo, ad esempio, il seguente schieramento di individui di diversa complessità organizzativa: un uomo, uno scimpanzé, un canarino, una mosca, un gene e un elettrone. Riflettendo scrupolosamente, possiamo chiederci: perché non considerarli tutti individui (o sistemi fisici individuali), ciascuno con la proprietà generica di auto-agire, nonché quella di poter interagire in qualche modo con altri individui? Mi sembra ragionevole pensare che questo potere di auto-agire e di autoregolarsi, e, in un certo senso, di autogestire l’informazione derivante dalle interazioni con l’ambiente circostante, cresca di intensità al crescere della complessità autorganizzativa degli individui.
Non vorrei però essere frainteso: la posizione filosofica a cui mi sento vicino non ha nulla a che vedere con l’egemonia ontologica del mentale, e proporrò uno mia tesi personale con un approccio del tutto diverso da quello di Penrose, non solo per quanto riguarda i concetti e i principi fondamentali della QM, ma anche una possibile riformulazione della teoria basata sullo spazio tridimensionale caratterizzato da un’attività irrefrenabile, nonché la descrizione di quella legge fisica che definirei di ordine geometro-meccanico e che permetterebbe di spiegare l’esistenza di entità elementari protoesperienziali, nonché le loro modalità di aggregazione e disgregazione, in funzione di specifiche condizioni locali del vuoto fisico.
Nell’affrontare il problema riguardante il fenomeno dell’esperienza conscia, assumerò pertanto l’esistenza di un suo precursore al livello quantistico, adottando (come già detto espressamente) un punto di vista filosofico che chiamerò “monismo radicale”. L’idea non sarà nuova, ma nessuno finora ha proposto una descrizione soddisfacente (basata sulla visualizzazione) dei processi basilari in termini geometro-meccanici.
Al momento non c’è nella cultura occidentale una teoria in grado di rendere intelligibili particolari caratteristiche del mondo mentale, quali l’attenzione, l’intenzionalità, il linguaggio, la comprensione e la consapevolezza, né una definizione generalmente condivisibile di questi termini (considerando poi che l’essere umano non sembra il solo individuo in cui tali caratteristiche risultano presenti).
Penrose è ben consapevole di questo stato di cose, ma egli afferma che, almeno dal punto di vista matematico, è possibile stabilire le relazioni che intercorrono fra questi tre termini: l’intelligenza richiede la comprensione e questa, a sua volta, richiede la consapevolezza. In altre parole, Penrose sostiene che parlare di intelligenza in assenza di consapevolezza non ha alcun senso. Tutto ciò gli è d’aiuto a controbattere le posizioni filosofiche dell’IA forte, ma lascia intatto il mistero dell’esperienza cosciente.
11- Una triade di misteri
A triad of mysteries
L’insieme dei fenomeni associati alla coscienza, stando al punto di vista dei fisicalisti, se fosse considerato un prodotto imprevedibile della natura, cioè non deducibile dalle leggi a noi note, resterebbe un mistero inspiegabile. Le attuali proposte antiriduzioniste sembrano dunque rispecchiare un atteggiamento pessimista, in quanto tutte, in un modo o nell’altro, giungono alla conclusione che l’intelletto non possa avere accesso alla comprensione delle leggi di natura.
Ci sono comunque scienziati, come Chalmers, non disposti alla resa. E se essi davvero intendono gettarsi in questa avventura, devono mettere in conto che la questione della coscienza non può essere affrontata senza che sia congiunta ad altre due questioni altrettanto profonde.
La prima fa capo al presente capitolo e cioè “perché esiste qualcosa anziché il nulla?”. Insomma, dato che un qualcosa effettivamente esiste, non ci si può limitare ad affermare, alla maniera di Leibniz, che questo qualcosa esiste in forza di un principio di ragion sufficiente. Piuttosto, si richiederà che la spiegazione del perché un qualcosa esiste sia basata su un senso di inevitabilità logica.
La seconda domanda è “quale o quali proprietà possiedono i processi atomici per essere in grado di dar luogo all’autorganizzazione e, con essa, alla sterminata varietà di enti più o meno instabili[45] che compongono il nostro universo e che implicano l’esperienza cosciente?”.
La formulazione di risposte soddisfacenti a questo genere di domande equivarrebbe a possedere validi presupposti per la costruzione di una Teoria del Tutto. Sulla ricerca della Teoria fisica unitaria, o Teoria di Tutto, mi sono già espresso in altri scritti. Una tale Teoria, per potersi dichiarare completa nel vero senso del termine, richiederà anche, e innanzitutto, una definizione del principio fondamentale, ovvero del principio in grado di giustificare in modo comprensibile l’esistenza della realtà cosmica, possibilmente attraverso un ragionamento che rifletta, come già suggerito, un senso di inevitabilità logica.
La Teoria richiederà poi un innovativo supporto fisico-matematico per spiegare come possano svolgersi i singoli processi fondamentali della natura e come questi possano interagire fra loro per dar luogo alle strutture auto-organizzative. In un certo senso, la Teoria dovrà rendere comprensibile come da essa possano discendere, attraverso un percorso evolutivo (di tipo darwiniano), tutti i fenomeni: le strutture apparentemente materiali, tutte le forze che agiscono su di esse, la biologia, la percezione sensibile, l’intelligenza e l’esperienza conscia.
Esporrò quindi la mia personale visione del mondo tenendo conto di tutte le tematiche fin qui affrontate a partire dalla nozione del nulla, per poi passare alla descrizione di una serie di nuovi concetti fisici che saranno basati sulla visualizzazione dello spazio dinamico tridimensionale e che risulteranno utili alla descrizione di alcune proposte sperimentali.
[1] Questa forma di dualismo è detto anche dualismo concettuale intensionale. Sebbene i predicati riferiti al mentale e quelli riferiti al fisico siano distinti sul piano linguistico e fenomenologico, non si può escludere che vi sia corrispondenza tra le estensioni dei predicati psicologici e fisici.
[2] Ricordiamo che Spinoza, nel suo Acosmico, sostiene il punto di vista del monismo, affermando che mente e corpo sono due aspetti di un’unica sostanza necessaria, autosufficiente e ontologicamente non definibile. Tale sostanza viene da lui identificata nel concetto di Deus sive natura, i cui attributi sono estensione e pensiero, e da essa discendono tutti i fenomeni dell’universo seguendo un percorso deterministico e teleologico. Ricordiamo anche come Einstein si accosti all’idea del Dio di Spinoza, condividendone gli attributi di estensione e pensiero, ma prendendo le distanze dalla sua concezione panteista (o immanentista). Il Dio di Einstein è infatti interpretato come un’entità che trascende la realtà cosmica e che, tuttavia, la pervade ovunque.
[3] T. Nagel, Che cosa si prova ad essere un pipistrello? Ed. Castelvecchio, Roma, 2013, cit pp. 7-8. Titolo originale What Is It Like to Be a Bat? Pubblicato sulla Philosophical Review, USA, 1974.
[4] Ivi, pp. 8-9 (v. anche paragrafo 5 di questo capitolo).
[5] I misteriani….
[6] David J. Chalmers, La mente cosciente (Milano, Mc Graw-Hill, 1999 – originalmente The conscious mind, Oxford-New York, Oxford University Press, 1996).
[7] Chalmers…
[9] Dato il carattere parziale delle teorie di cui disponiamo in ogni ambito conoscitivo, soltanto la conoscenza degli elementi ultimi (del loro fondamento ontologico, della ragione della loro sussistenza e delle loro proprietà intrinseche e relazionali) potrebbe unificarle in una Teoria completa e auto-consistente.
[10] “Un sistema vivente è: a), un sistema autorganizzato lontano dall’equilibrio termodinamico tale che; b), i suoi processi siano governati da un programma immagazzinato simbolicamente e che, c), sia in grado di riprodurre se stesso, programma compreso”. Questa definizione è data dal fisico Lee Smolin nel suo saggio La vita del cosmo, Giulio Einaudi editore, Torino 1998, p. 197.
[13] I programmi per computer sono definiti in termini puramente formali (o sintattici) e i loro limiti, come osserva John Searle, sono dovuti al fatto di non possedere una semantica.
[14] All’IA forte si contrappone l’IA debole, in base alla quale è costruibile in linea di principio una macchina controllata da un sofisticato calcolatore in grado di simulare manifestazioni esteriori di sensibilità, intelligenza e consapevolezza, come ad esempio quelle proprie di un cervello umano, ma che una tale simulazione non possiede realmente queste caratteristiche.
[15] Francis Crick e Cristof Koch….
[16] Roger Penrose, La mente nuova dell’imperatore… Ombre della mente….Il grande, il piccolo e la mente umana….
[17] Il grande, il piccolo e la mernte umana, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, p. 145.
[18] Penrose contrapporre allo schema gerarchico dei tre mondi teorizzati da Popper (il mondo fisico, quello mentale che è un prodotto del mondo fisico e, infine, il mondo della cultura che, a sua volta, è un prodotto del mondo mentale) un suo schema particolare in cui mette in relazione il mondo fisico e il mondo mentale (quest’ultimo, alla stessa maniera di Popper, concepito come un prodotto del primo). Questi due mondi, insieme al mondo platonico delle forme disincarnate ed eterne inclusivo degli “oggetti” matematici, costituiscono una triade di realtà fra loro interdipendenti. Cfr, Roger Penrose, Il piccolo, il grande e la mente umana, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000, p. 97 e segg.
[19] John R. Searle, La mente, 2005, Milano, Raffaello Cortina Editore, pp. 81-82.
[20] Il cervello umano, pur potendosi scontrare con problemi che non sarebbe in grado di risolvere, quantomeno allo stadio attuale del suo sviluppo, dà l’impressione di essere governato da una struttura di regole operazionali più potente di quella propria delle macchine finora concepite. La mente del matematico, per essere in grado di comprendere il teorema di Gödel, non può essere isomorfa a una qualsivoglia macchina di Turing, in quanto se lo fosse non potrebbe calcolare e, allo stesso tempo comprendere, ciò che effettivamente comprende.
[21] Ibidem, p.119.
[22] La decoerenza, o desincronizzazione …
[23] L’idea base della tesi di Penrose proviene dall’osservazione che anche gli organismi unicellulari manifestano un comportamento finalizzato, nonostante il fatto che in essi non ci sia traccia di neuroni. Tali organismi sono in grado di reagire alla luce, di aggirare ostacoli nell’esplorare l’ambiente circostante e possiedono una forma primitiva di memoria. Ciò accade, ad esempio, nel paramecio, le cui ciglia preposte al movimento, sono strutture microtubulari che producono oscillazioni sincronizzate. Strutture microtubulari si trovano anche nella coda degli spermatozoi. Ma ciò che più interessa è che si trovano nei neuroni. Dunque, si può ragionevolmente presumere che l’elemento fondamentale dell’“intelligenza” cellulare vada ricercata nel microtubulo.
[24] Roger Penrose, Il grande, il piccolo e la mente umana, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000, pp. 131-132.
[25] Id. pp. 132-134
[26] Norton Whithehead, Processo e realtà (1929) ….
[27] Roger Penrose, Il grande, il piccolo e la mente umana, p. 155
[28] ibidem, cit. p. 153
[29] Ibidem, cit. p.
[30] Ibidem, cit. p. 154
[31] Ibidem, cit. p.171
[32] Roger Penrose, Ombre della Mente, p.
[33] Franco Selleri….
[34] Bertrand Russell, The Analysis of Matter, new edition published in 2007 by Spokesman, Russell House, Nottingham, England.
[35] Chalmers…
[36] Andrea Lavazza, L’uomo a due dimensioni, …
[37] Galen Strawson…
[38] Andrea Lavazza, L’uomo a due dimensioni, Ed. Bruno Mondadori, 2008, cit. p. 61.
[39] ibidem, cit. p 227.
[40] Il principio di coerenza strutturale…. Il princioio di invarianza organizzativa…
[43] Roger Penrose….
[44] C’è un chiaro riferimento alla concezione monadologia di Leibniz.
[45] Il senso comune tende a considerare stabili molti enti di cui facciamo esperienza, come ad esempio un rubino, una palla di biliardo, una parola (stampata, pronunciata o evocata mentalmente) e, inoltre, a difendere la validità del principio classico di identità, in base al quale X=X. Sembrerebbe invece più ragionevole dubitare, se non addirittura a escludere, che esistano enti assolutamente stabili. Accade però che il nostro apparato sensoriale e intellettivo è portato a generare idealizzazioni (forme stabili), laddove effettivamente sono in corso esclusivamente mutamenti incessanti e processi che, oltre una data soglia di possibilità esplorativa, ci sono del tutto inaccessibili. Credo si tratti di una “strategia” della natura tale che noi possiamo adattarci, prioritariamente, a perseguire obiettivi di pratica utilità nella vita quotidiana.