Un meccanismo importante attraverso il quale si sviluppa la scienza è quello dell’uso dei paradossi[1]. Data la loro variegata natura, non è mai stata formulata una teoria generale dei paradossi. Sebbene classificabili in una varietà di tipologie, essi vanno trattati come casi problematici singolari ogni volta che irrompono all’interno del discorso scientifico, e l’interesse degli studiosi è diretto essenzialmente a valutare l’uso che del paradosso viene fatto nei diversi ambiti disciplinari.
Alcuni paradossi agiscono come un’impossibilità di riempire la profondità delle idee di cui l’io fa esperienza e in alcuni casi comportano una regressione all’infinito, come ad esempio nel voler suddividere una porzione di spazio in parti sempre più piccole. In altri casi comportano indecidibilità generata dall’oscillazione fra due poli, come quando si vuole assegnare un valore-verità ad enunciati autoreferenziali del tipo “la proposizione che segue è vera; la proposizione che precede è falsa”. Si tratta, però, di enunciati che hanno come oggetto il linguaggio stesso, di parole che parlano delle parole e non di un contenuto empirico. Piuttosto problematica è invece la situazione di indecidibilità derivante dal tentativo di operare una distinzione soggetto-oggetto nella struttura unitaria del pensiero che riflette su di sé, dell’io che ha innanzitutto come oggetto di percezione cosciente se stesso. Il fenomeno della coscienza è, in modo evidente, il crocevia enigmatico di ogni teoria della conoscenza, e la proprietà che la caratterizza, intendo dire l’autoreferenza (sulla quale argomenterò estesamente nei capitoli successivi), potrebbe effettivamente riflettere il principio organizzativo della realtà fisica nei suoi vari livelli strutturativi in cui operano meccanismi di retroazione.
Esistono anche paradossi che si presentano come vere e proprie contraddizioni in logica, poiché derivano correttamente da premesse di cui nessuno metterebbe in dubbio la coerenza. Ben nota è la contraddizione rilevata nel 1902 da Bertrand Russell (1872-1970) all’interno della teoria degli insiemi. Con tale contraddizione, che propriamente va sotto il nome di “antinomia di Russell”(V. capitolo IV, § 4), si aprì la crisi dei fondamenti in logica. Poi, a distanza di un trentennio, il teorema di incompletezza di Gödel (V. capitolo IV, § 5 e 6) venne a mettere a nudo la condizione problematica dell’intera costruzione logico-matematica, sia perché al suo interno esistono problemi che non è in grado di risolvere, sia perché non dispone di un criterio inoppugnabile per stabilire la verità matematica. Il teorema di incompletezza, sebbene sia definito “paradossale” da alcuni filosofi, in effetti si limita a sfiorare il paradosso senza però cadervi.
Infine, ci sono i paradossi in fisica. Alcuni di essi irrompono come un netto disaccordo avvertibile tra l’oggetto dell’esperienza sensibile e il discorso che lo riguarda, tra un dato aspetto della realtà e la rappresentazione che ce ne facciamo. Un esempio è dato dalla nozione ambigua di onda-corpuscolo che, nello studio del microcosmo quantistico, non permette di interpretare la natura della realtà quantica con immagini o concetti adeguati. Altri paradossi derivano da un’incoerenza della teoria fisica allorché le sue ipotesi fondamentali sono vanificate dalle loro stesse predizioni. Ad esempio, si ricorderà come la nozione inquietante di singolarità, prevista dalla relatività generale all’interno di un buco nero formatosi in seguito a collasso gravitazionale, venga a spogliare di significato il concetto unitario di spazio-tempo che caratterizza la teoria stessa.
Aspetti negativi e aspetti positivi dei paradossi in logica e in fisica
Alcuni paradossi in logica sono fonte di grande preoccupazione perché vengono a minare la credibilità dello strumento preposto a verificare la qualità delle risposte alle questioni profonde poste dalla filosofia. Alcuni paradossi in fisica costituiscono barriere naturali a zone assolutamente inaccessibili all’esperienza sensibile e rappresentano il problema che sta vanificando gli obiettivi della fisica fondamentale e della cosmologia, consistenti nella comprensione delle proprietà delle strutture elementari della materia, dello spazio-tempo e del loro reciproco collegamento.
I paradossi in logica e in fisica fanno la loro apparizione dopo periodi più o meno lunghi di tranquillità, mettendo in crisi o disgregando vecchie idee resistenti che finiscono con l’essere rimesse in discussione e sostituite da altre destinate a formare un diverso quadro interpretativo. Le nuove idee adottate per evitare la perdita di una conclusione del discorso scientifico sono però destinate a riconfigurare un altro paradosso, e quindi discusse e prima o poi sostituite, e così via, secondo un processo di progressivo approfondimento teorico che richiede di essere interpretato.
In tempi recenti si è andata affermando la convinzione di un ruolo positivo del paradosso, valutandolo come elemento fruttifero del territorio scientifico. La sua presenza costituisce senza dubbio una sfida all’intelletto, uno stimolo alla creatività, ed è dunque anche lo strumento in grado di impedire il ristagno dei pregiudizi. Questa riconsiderazione del paradosso viene a porre la scienza nella condizione di rimettersi continuamente in discussione, impedendole di erigersi a dogma, e sembra anche giustificare il dominio incontrastato che di fatto essa è venuta assumendo nei confronti delle discipline umanistiche nella storia contemporanea.
L’idea di progresso basata sulla fecondità del paradosso ha il potere di far credere che l’apparato scientifico sia guidato da un impianto concettuale fondamentalmente affidabile che richiederebbe soltanto una serie di aggiustamenti di rotta sempre più sottili, e che stia puntando con crescente approssimazione nella giusta direzione di una completa conoscenza della natura.
Tuttavia, la conoscenza scientifica della natura, intesa come la comprensione razionale dello svolgimento dei processi fisici, è considerata dalla quasi totalità dei razionalisti una meta di natura metafisica assolutamente irraggiungibile. La convinzione che ha la scienza di procedere in direzione di questa meta viene corroborata dalla suggestione della quantità di vantaggi conoscitivi e tecnologici che vanno via via moltiplicandosi lungo il suo cammino, e l’ottimismo dilagante che ne deriva è sufficiente ad eleggerla quale esclusiva guida ideologica dell’uomo verso il migliore dei mondi possibili. Ma chi sono gli attori e i comportamenti di questa presunta impresa chiamata “conoscenza scientifica” e quali sono i loro autentici scopi? Nella visione di Popper
la conoscenza scientifica può essere considerata come senza soggetto. Può essere considerata come un sistema di teorie su cui noi lavoriamo come lavorano i muratori su una cattedrale. Lo scopo è di trovare teorie che alla luce della discussione critica, si avvicinino il più possibile alla verità. Così lo scopo è l’aumento di contenuto di verità delle nostre teorie.[2]
Questa concezione della scienza si impone e si diffonde fino a confondersi nel modello tecnoscientifico dell’occidente, che tende a riconoscersi in una logica evolutiva aperta fondata sull’idea del progresso irresistibile. Con il suo potere di seduzione, l’apparato tecnologico-scientifico è divenuto oggi un fenomeno di tali proporzioni da coinvolgere e intrecciare irreversibilmente campi di interesse di ogni sorta, dalla ricerca pura all’economia, alla cultura, alla politica, alla scienza militare. Il mondo scientifico è perciò classificabile come un vasto sistema autoalimentativo difficile da analizzare, ma soprattutto esposto all’incontrollabilità tipica dei sistemi altamente complessi. Peraltro, si sono oggi accumulate così tante anomalie all’interno della scienza, sia nel campo stretto della ricerca di base portata avanti dalla comunità degli specialisti, sia nel campo della ricerca applicata e tecnologica con tutti i suoi inevitabili riflessi nella sfera psicologica e sociale, da dover mettere in discussione il mito neopositivistico ispirato alle idee di continuo progresso e di società scientifica aperta. La prima di queste due idee sembra infatti poco promettente, perché l’evoluzione del programma attuale della ricerca è in fase regressiva, e la seconda corrisponde piuttosto ad un’immagine chiusa e forse più somigliante a quella delineata nel periodo postpopperiano dal filosofo Thomas Samuel Kuhn (1922), secondo il quale la società scientifica è caratterizzata da una relativa stabilità (fase di scienza normale); essa è essenzialmente rigida e governata dall’abitudine, e di tanto in tanto è perturbata da una crisi (rottura rivoluzionaria) che è ritenuta in qualche modo superabile per poi recuperare l’usuale armonia. Stabilità e armonia vengono assicurate da parte dei membri della comunità scientifica attraverso la condivisione generale di un paradigma che guiderà le scelte teoriche e la prassi sperimentale e, solo dopo che si saranno accumulate anomalie fino al punto di aprire una crisi, inizierà una fase di discussioni tese alla ricerca di altre idee che potranno candidarsi a formare un nuovo paradigma. Questo processo evolutivo della scienza non è però semplice come può sembrare, perché, come osserva Kuhn,
[…] all’interno della società scientifica esistono diversi fattori di ordine psicologico e sociologico che giocano un ruolo non indifferente nell’orientare, in entrambe le fasi, sia le scelte teoriche che la prassi sperimentale.[3]
Nella sua globalità, il mondo della scienza si configura come un fenomeno piuttosto oscuro, sospettabile di irrazionalità, tanto è vero che i suoi interpreti si scontrano su modi di pensare e comportamenti umani non meno paradossali di quelli che incontrano gli specialisti impegnati nello studio dei fenomeni fisici. L’elemento problematico dibattuto dai filosofi della scienza e dai fisici teorici impegnati in questioni epistemologiche è appunto la razionalità, il suo significato e il ruolo che riveste all’interno del processo evolutivo della conoscenza, processo che, come si è già osservato, non coinvolge soltanto teorie, apparecchiature e fenomeni fisici, ma anche cultura e abitudini di società, di gruppi di persone e di singoli individui. “Il comportamento scientifico, preso nel suo insieme” afferma Kuhn “è il miglior esempio che abbiamo di razionalità”[4]. Ma egli tiene anche a chiarire la sua posizione nei confronti dell’impresa scientifica, osservando
che se la storia […] ci porta a credere che lo sviluppo della scienza dipende essenzialmente da un comportamento precedentemente considerato irrazionale, dovremmo allora concludere non che la scienza sia irrazionale, ma che la nostra nozione di razionalità ha bisogno di una rettifica in qualche punto.[5]
Se dunque lo scopo della scienza odierna è quello di fornire descrizioni razionali del mondo fisico, si deve spiegare che cosa si intenda con questa espressione. Si potrebbe definire “razionale” una descrizione giudicata rispondente al buon senso e dunque ampiamente condivisa dai fisici, o una descrizione che, pur essendo in contrasto con il buon senso, sia così funzionale sul piano predittivo da mettere in ombra l’esigenza stessa di razionalità. Finora, la storia della scienza ci ha dato solo esempi di descrizioni fisiche rivelatesi via via non rispondenti al requisito della razionalità, e le stesse due teorie maestre di questo secolo, relatività generale e meccanica quantistica, non potrebbero rivendicare una condizione di buona salute in fatto di razionalità, dal momento che si avverte da decenni il peso dei loro limiti, dei loro aspetti paradossali e dunque l’esigenza di un loro superamento.
Prima che si aprisse la crisi dei fondamenti in logica e matematica, la razionalità era accettata come un principio assoluto e immutabile della natura, considerata la fonte di ogni ispirazione del pensiero scientifico. Quando poi la scienza è venuta a confrontarsi con le cosiddette “stranezze” dell’universo quantistico l’idea della razionalità ha cominciato ad oscurarsi, e ben presto i positivisti sono riusciti a costruire un’originalissima teoria scientifica capace di assicurare i migliori frutti mai raccolti prima dall’uomo, pagando però il prezzo di una rinuncia alla razionalità. Tuttavia, i positivisti avranno sempre ragione nell’affermare che le sole fonti di conoscenza sono i nostri atti osservativi (le misurazioni), e le equazioni con cui essi interpretano la meccanica quantistica avranno un dominio incontrastato fino a quando qualche fisico sarà in grado di esibire una formulazione migliore di quella probabilistica.
I sostenitori del realismo e del causalismo, malgrado gli sforzi intellettuali che si protraggono da circa ottant’anni, non hanno mai fornito alcun convincente argomento scientifico e, tantomeno, una prova sperimentale in grado di mettere in crisi i principi della QM. Si dovrà allora riconoscere il fatto che le immagini che ci derivano dall’esperienza sensibile non sono adeguate a descrivere l’effettiva immagine della realtà fisica. Ciononostante, non si deve necessariamente concludere che la sua immagine corretta non sia catturabile nelle reti del pensiero logico.
Ma come definire corretta un’immagine del mondo? Il realista baserebbe la sua definizione di “correttezza” sulle nozioni di causalità, di spazio tridimensionale e di tempo, ispirandosi ancora una volta alle intuizioni immediate dell’esperienza sensibile, e intenderebbe come razionalmente corretta una descrizione che sia conforme al modo con cui funziona la natura. Ma una tale definizione è “a posteriori”, ed è proprio ciò che la scienza si pone come scopo ultimo, e tuttavia irraggiungibile, della sua ricerca!
Da quanto si è detto, sembra emergere che il modo di procedere della scienza sia esso stesso un fenomeno paradossale, tanto da farsi strada il sospetto di un suo indebito dominio. Se da una parte la scienza richiede come fondamentale un atteggiamento vigile di permanente disubbidienza all’evidenza dei giudizi, dando il benvenuto al prorompere dei paradossi, dall’altra accetta di rimettersi alla strapotenza di un oscuro “disegno” della natura che terrebbe costantemente sotto scacco, svilendola, la ragione umana.
In ambito scientifico, la ferma adesione all’idea di una funzione positiva del paradosso urta con l’idea che si debba con esso convivere definitivamente. Il fatto di doverlo accettare come una realtà dialetticamente contrastabile ma insopprimibile, condannerebbe l’umanità a patire un eterno disagio intellettuale e ad accettare il mistero della sua inevitabile presenza. Molti fisici teorici sono dichiaratamente felici di questa condizione di permanente aspirazione ad una verità inafferrabile. Si tratta però di una posizione di pensiero criticabile perché partecipe di due convinzioni fra loro incompatibili: da una parte, la presunta razionalità della natura e, dall’altra, l’inesauribilità del processo di approfondimento della teoria scientifica. Vorrei qui ricordare che Einstein nutriva entrambe queste convinzioni. Egli, che aveva da poco terminato di formalizzare la teoria della relatività generale, ne riconosceva già l’incompletezza e scriveva
[…] non ho dubbi che verrà il giorno in cui anche quest’ultima descrizione dovrà cedere il passo a un’altra, per ragioni che al momento non sospettiamo neppure. Sono convinto che questo processo di approfondimento della teoria non abbia limiti.[6]
Nondimeno, Einstein era dell’idea che l’universo sia governato da leggi semplici, universali ed eterne dalle quali discendono tutte le forme di esistenza, vita e coscienza incluse. La ricerca di una teoria di completa unificazione delle leggi fisiche ha rappresentato una tensione intellettuale che ha tenuto letteralmente in assedio la sua vita e il suo pensiero. Einstein era però anche dell’idea che l’eventuale formulazione di una tale teoria non comporterebbe in alcun caso la comprensione delle leggi elementari della realtà cosmica. Pertanto, egli condivideva con Popper l’impegno scientifico e il carattere di permanente incompiutezza della teoria, ma si riservava dei dubbi circa la generale convinzione che il procedere sistematico della scienza corrisponda ad un progressivo e irresistibile avvicinamento alla verità.
Osservazioni
L’affermazione che il compito primario della scienza consiste nel tendere verso la comprensione ultima della natura piuttosto che raggiungerla, deve essere investigata criticamente, appunto per il suo aspetto paradossale. Non si può difendere l’esistenza di un principio che governi tutti i livelli di realtà ma che non sia accessibile all’intelletto umano. Un simile modo di pensare non si discosta molto dalla concezione kantiana della dialettica.[7] I razionalisti, di fronte all’impredicibilità dei processi quantistici imposta dal principio di indeterminazione, finiscono con il collocarsi in una posizione ambigua quando dichiarano di aspirare a conoscere ciò che assumono come inconoscibile, in quanto al di là di ogni possibile esperienza. L’impegno degli scienziati, sostiene Planck, è
[…]come una corsa incessante verso una meta che non potrà mai essere raggiunta, e che per principio non può essere raggiunta. La meta infatti è di natura metafisica […] Ma il dire che la scienza dà la caccia ad un aereo fantasma, non equivale forse a dichiarare che ogni scienza è priva di senso? Niente affatto. Perché è appunto questa continua lotta quella che fa nascere e maturare in quantità sempre crescente i preziosi frutti che ci forniscono la prova palpabile, anzi l’unica prova che siamo sulla buona strada e che ci avviciniamo perennemente all’irraggiungibile meta lontana”.[8]
Mi sembra di scorgere in questa interpretazione della scienza il punto debole che non le permette di superare l’attuale fase di ristagno e, nel respingerla, farò alcune osservazioni per sostenere che essa rende impossibile un ulteriore approfondimento teorico. La scienza, piuttosto che avvistare nel paradosso il segnale dell’invalidità a priori dei suoi ragionamenti, perviene a un compromesso, interpretandolo come un fondamentale ingrediente costruttivo della teoria della conoscenza.
Questo atteggiamento della scienza nei confronti del paradosso sembra avere, in una certa misura, una rilevanza analoga all’atteggiamento assunto da Georg Hegel (1770-1831) nei confronti della contraddizione, in cui egli aveva scorto il meccanismo fondamentale che accomuna i concetti della ragione e la sostanza della realtà in un medesimo processo autostrutturativo.[9] Ma c’è una profonda differenza. Hegel aveva intuito nella contraddizione il principio della verità metafisica attraverso una genuina ricerca filosofica, mentre la scienza odierna non sembra affatto proiettata alla ricerca di un tale principio. Hegel intendeva seguire un coerente e rigoroso percorso filosofico volto a costruire una visione della realtà basata sulla dialettica delle opposte categorie dell’essere e del nulla. “La contraddizione viene difesa dall’accusa di essere soltanto qualcosa che blocca il pensiero, e rovesciata da Hegel in qualcosa di opposto: il principio di una trasformazione ininterrotta”.[10] Al contrario, la scienza assume una posizione, a dir poco, irritante nell’affermare il ruolo positivo del paradosso e poi nel mostrarsi preoccupata non appena i primi pesanti paradossi vengono a sbarrarle il cammino. Infatti, non ha mai gradito quel genere di paradossi capaci di minacciare l’affidabilità delle teorie fisiche e della matematica su cui queste si fondano. Piuttosto, si è trovata nella necessità di correre ai ripari per esorcizzare in qualche modo la loro presenza. Visto che qualsiasi tentativo di risolvere logicamente i paradossi si rivela pericoloso perché conduce a farne vere e proprie contraddizioni, la scienza si limita ad aggirarli con espedienti molto discutibili, anziché scorgervi il segnale della necessità di ridiscutere l’intero quadro concettuale alla base dei linguaggi consolidati.
Per evitare fraintendimenti, vorrei precisare che non trovo da ridire sulla rivalutazione del paradosso in chiave positiva, anche perché il ruolo della scienza verrebbe così a trovarsi di volta in volta nella condizione di mettersi incondizionatamente in discussione. L’aspetto discutibile e forse perfino pericoloso della scienza emerge dalla sua decisione di fare del paradosso l’ingrediente che la terrebbe al riparo dalla tentazione dogmatica. Ma la sua posizione è già dogmatica nell’assumere e propagandare la convinzione che il suo destino è segnato da un vincolo indissolubile con il paradosso, e nell’implicito disimpegno filosofico a comprenderne la genesi. La posizione dogmatica respinta dalla scienza riappare pertanto come volontà di potenza e come effettiva rinuncia a mettere in questione la sola cosa che resta da discutere: il suo linguaggio, e con esso il suo stesso dominio.
Presa consapevolezza dei grandi ostacoli presenti nella teoria della conoscenza, la scienza non può essere convincente nell’affermare che il paradosso vive solo il tempo occorrente per superarlo e nel seguitare a pensarlo come permanente e metamorfico. Il paradosso sta ormai paralizzando ogni possibilità di significativo sviluppo del pensiero scientifico, e sono personalmente convinto che abbia oramai esaurito la sua funzione e che, quindi, dovremmo ora contare sulla possibilità di smascherarlo.
Riflettendo a fondo, l’incalzante presenza dei paradossi in fisica e matematica viene interpretata come un’irrazionale proprietà della natura che stabilisce un limite assoluto alla conoscibilità, piuttosto che come un effetto di selezione naturale con una motivazione ben precisa e potenzialmente rintracciabile nel corso dello sviluppo del pensiero logico-filosofico. Il razionalismo critico, nel proporsi come ricerca di descrizioni razionali del mondo, finisce con l’essere non molto dissimile dal positivismo. Le posizioni epistemologiche delle due scuole di pensiero sono infatti equivalentemente antiscientificche perché entrambe sostengono la non conoscibilità ultima della natura, e si differenziano soltanto sulla questione di dove tracciare l’orizzonte del potere conoscitivo dell’uomo. Per i positivisti l’orizzonte della conoscenza si arresta in coincidenza con il principio di indeterminazione quantistica, mentre per i razionalisti può spostarsi indefinitamente oltre lo sguardo dell’esperienza attuale. Peggio ancora, mentre il positivista tende ad assumere un atteggiamento strumentalistico dichiarandosi piuttosto disinteressato alle questioni che concernono la verità di una teoria, il razionalista rifiuta un tale atteggiamento ed introduce un elemento di irrazionalità nell’invocare la Ragione e nel dichiarare allo stesso tempo che questa non gli apparterrà mai.
I razionalisti sono fermamente convinti che là fuori esista una realtà e che questa sia riconducibile ad una spiegazione razionale, e tuttavia il loro linguaggio si trova paralizzato davanti alle assurdità derivanti dallo studio del mondo quantistico Essi non accettano la completezza della teoria che concerne quel mondo perché in essa viene adottato un procedimento di calcolo, chiamato “collasso della funzione d’onda”, che contiene un elemento di irrazionalità. Ma che cosa propongono al suo posto? Propongono la convinzione di poter prima o poi riformulare la teoria liberandola da presupposti irrazionali e, allo stesso tempo, la convinzione che ad essa seguirà un’altra formulazione e poi un’altra ancora e così via, perché ogni formulazione conterrà pur sempre un paradosso che richiederà di essere eliminato per lasciare il posto ad un altro, secondo un processo di approfondimento senza fine. Ma allora, questa ipotetica evoluzione della teoria non è forse, al pari dell’attuale teoria quantistica, fondata su un elemento di irrazionalità costituito dalla permanenza di un elemento (la figura del paradosso) la cui natura non potrà mai essere compresa? Come si può credere che la scienza, vista in una tale prospettiva, rappresenti la guida esclusiva verso il più ragionevole dei mondi possibili? La convinzione di Kuhn (certamente condivisa anche da Popper) che il modo in cui procede la scienza rifletta il miglior esempio di razionalità dovrebbe essere riespressa in termini diversi, ad esempio affermando semplicemente che un tale procedere risulta uno dei comportamenti forse meno pericolosi, e tutto sommato anche uno dei più interessanti dal punto di vista della soluzione di problemi di adattamento dell’uomo all’ambiente. Se però se ne vuole fare una questione di coerenza, il modo di procedere della scienza non solo è oscuro in assenza di una norma oggettiva di razionalità, ma si rivela addirittura antiscientifico all’interno di tutti i modi di pensare finora messi a confronto. Se l’irrazionalità non potesse essere di fatto eliminata all’interno dell’impresa scientifica, allora sarebbe preferibile l’anarchismo proposto dal filosofo austriaco Paul K. Feyerabend (1924-1994), che al metodo falsamente rassicurante della scienza ufficiale oppone
il solo principio che possa essere difeso in tutte le circostanze e in tutte le fasi dello sviluppo umano. E’ il principio “qualsiasi cosa può andar bene”.[11]
A ben guardare, sia i principi regolativi del razionalismo critico (tener conto della fallibilità delle teorie, essere aperti al cambiamento, essere fiduciosi nella crescita indefinita della conoscenza, ecc.) che quelli del positivismo ( fondare le teorie sulle osservazioni, contare sull’accuratezza degli strumenti di misura, ricordare che esiste un limite assoluto alla misurazione, ecc.), oltre a promuovere un’immagine riduttiva della scienza, annullano la possibilità del suo scopo, e infine favoriscono idee controverse e fra loro incompatibili quali il progresso, l’incertezza e l’approssimazione alla verità, e alimentano passioni quali la volontà di potenza e la gratificazione derivante dagli agi della ricerca e dal riconoscimento personale.
Il credere che i paradossi impediscano la stagnazione delle idee trova tutti d’accordo, vero è che la visione filosofico-scientifica del mondo evolve. Vorrei tuttavia osservare che la presenza dei paradossi in logica e in fisica ha permesso soltanto al pensiero di moltiplicare le sue idee e di accrescere la sua capacità immaginativa, e non necessariamente ad approssimarsi[12] alla conoscenza del mondo “quale esso è in sé”. Inoltre, non esistono motivi sufficienti per escludere la possibilità di comprendere che il paradosso abbia un’origine storica e che questa possa essere individuata. Infatti, il processo evolutivo delle esperienze umane potrebbe essere stato promosso, invece che da un paradosso metamorfico e ineliminabile, da un errore inevitabile e insospettabile all’interno del nostro schema di pensiero; un errore così sottile, così invisibile e virulento da tenere sotto scacco per secoli l’intera umanità. Si potrebbe pensare che nella cultura occidentale il complesso apparato filosofico-scientifico sia cresciuto originandosi da un insieme incoerente di categorie del pensiero e di principi logici fissati dall’uomo filosofico, che ovviamente non può fare la sua comparsa sulla terra con un bagaglio preconfezionato di intuizioni, concetti e ragionamenti impeccabili in grado di illuminare il suo rapporto intrigante con il mondo.
L’esercizio di questo apparato, inteso come un processo autoregolativo e autoalimentativo in termini di idee-azioni, rappresenterebbe la storia naturale dell’occidente e allo stesso tempo la storia dell’alienazione dell’uomo dalla comprensione unitaria della realtà cosmica. L’incoerenza di fondo presente nel quadro concettuale approntato dall’uomo, risvegliandosi di tanto in tanto nelle vesti di un paradosso, avrebbe il potere di provocare il pensiero mettendone in moto le idee, e inducendolo a predisporre una serie di strumenti tesi a superarlo, ma incapaci di identificarne la provenienza. Questo processo si risolverebbe infine in una crescente disponibilità di vantaggi pratici per l’umanità fino al punto di farle esercitare un indiscusso dominio sull’ambiente, oltre che a farle accrescere la fiducia nella validità del suo modo di pensare. Non le permetterebbe però di perseguire, se non in forma illusoria, lo scopo espresso dalla sua vocazione originaria: la comprensione della realtà cosmica.
In questo plausibile scenario del pensiero occidentale sembra proprio credibile che il perdurare così a lungo dei paradossi possieda la grandezza di una funzione insostituibile, come se implicasse un senso: trovare il sentiero che conduce a una piena conoscenza della realtà cosmica è possibile, ma occorre sopportare a lungo di non sapere in quale direzione si stia andando.
La scienza contemporanea adotta come criterio regolativo del suo cammino l’assunto della razionalità della natura, ma si trova a scontrarsi con l’indeterminismo quantistico che può essere interpretato come una proprietà intrinseca della natura oppure come un segnale di incompletezza della teoria. La questione della razionalità rimane dunque irrisolta, e si propone ad oltranza nei termini di un confronto improduttivo: da una parte la logica classica a due valori, e dall’altra la logica quantistica basata sul principio del terzo non escluso, per via dell’incomprensibile nozione di “sovrapposizione di stati”, che molti fisici si sentono legittimati ad adottare in seguito agli esiti di collaudatissimi esperimenti, come quello dell’interferenza con le due fenditure (descritto nel primo capitolo).
La scienza, se intende risolvere questo conflitto e se non vuole limitarsi all’atteggiamento pragmatico dei positivisti improntato alla sola ricerca utilitaristica, non ha altra scelta che quella di riaprire il dialogo con la filosofia. D’altra parte, quasi tutte le grandi rivoluzioni scientifiche hanno avuto le loro radici in profonde considerazioni filosofiche. Ricordiamo ad esempio Einstein, che prima di formulare le sue teorie non si preoccupò tanto di approfondire le sue acquisizioni in fisica e in matematica quanto di leggere filosofi come Hume, Leibniz, Kant, Goethe, Mach. Il suo interesse di fondo era quello di riflettere sul significato dei concetti di spazio, di tempo e di causalità. Guardandosi intorno con occhi nuovi egli giunse a porsi alcune domande fondamentali e riuscì a rivoluzionare la conoscenza del mondo fisico trovando una spiegazione in grado di unificare due concetti fisici, la massa e l’energia, fino ad allora considerati indipendenti. Inoltre, i suoi studi sul moto browniano hanno convalidato la teoria atomica della materia, mentre i suoi lavori riguardanti i quanti di luce hanno permesso di comprendere l’esistenza di una relazione tra fenomeni meccanici e fenomeni elettromagnetici. Pertanto, grazie alla Teoria della Relatività Speciale, Einstein è riuscito ad ottenere una parziale unificazione della meccanica e dell’elettrodinamica. Da allora, il grande scienziato del secolo cominciò a vagheggiare il progetto di una teoria fisica unificata.
E’ però chiaro che gli scienziati oggi impegnati nella ricerca di una spiegazione unitaria delle leggi fisiche che governano macrocosmo e microcosmo si trovano ad affrontare problemi filosofici ben più difficili, perché non sanno proprio da dove cominciare, essendo venuti a cadere quei riferimenti cardinali che in fisica e in matematica erano considerati certezze fino al tempo di Einstein. Probabilmente ci saranno idee, domande e ipotesi che saranno conservate, ma altre che sicuramente dovranno essere ridiscusse e forse rigettate perché riconosciute erronee o prive di senso.
[1] Il termine “paradosso” (dal greco paradoxos) significa “contrario al senso comune”. Può accadere che un paradosso si avvicini al limite della contraddizione in termini o lo superi, nel qual caso prende il nome di “antinomia” , termine anch’esso di origine greca che significa “contrario alle leggi”, quella della sintassi logica del linguaggio.
[2] Karl Popper, La scienza normale e i suoi pericoli, tratto da Critica e crescita della conoscenza, Feltrinelli Ed. Milano, 1986, pp. 127-128.
[3] Thomas Kuhn, La struttura della rivoluzione scientifica, 1962….
[4] Thomas S. Kuhn, Note su Lakatos in Critica e Crescita della Conoscenza, Feltrinelli Ed. Milano, 1986, cit. p. 416
[5] ibidem, cit. p. 416.
[6] Einstein, lettera indirizzata al matematico e fisico tedesco Felix C. Klein (1849-1925) in data 4 marzo 1917.
[7] Nella Critica della Ragion pura pubblicata nel 1781, Immanuel Kant (1724-1804) spiega come il pensiero umano, dal punto di vista conoscitivo, sia limitato all’orizzonte dell’esperienza. Tuttavia esso tende ad avventurarsi oltre questo territorio, sospinto da un bisogno naturale e irresistibile. Accade però che, non appena osa oltrepassare quell’orizzonte, la mente cade fatalmente nell’ errore e nell’illusione
[8] Max Planck La Conoscenza del Mondo Fisico, ed. Universale Bollati Boringhieri, 1993, cit. p 245
[9] Hegel, nell’introduzione ai Fondamenti di filosofia del diritto (1821), afferma l’identità tra razionale e reale, superando così il dualismo kantiano fondato sulla distinzione soggetto-oggetto. Il metodo attraverso il quale è possibile giungere alla conoscenza scientifica dell’Assoluto è la dialettica, articolata in tre momenti: tesi, antitesi e sintesi. Ma la dialettica è anche la legge operativa che inerisce alla realtà permettendole lo sviluppo. In tal modo vengono a coincidere il soggetto e l’oggetto della conoscenza, i quali vanno attualizzandosi come piena autocoscienza della realtà. Il momento cruciale della dialettica è l’antitesi, ed è il momento negativo della Ragione, perché tutte le opposte determinazioni, che nell’intelletto si presentano statiche e distinte (tesi), si dinamizzano coinvolgendosi in un processo di scontro e di superamento. Nel superamento (sintesi) viene colta l’unità del reale,l’unità delle determinazioni contrarie che il processo di scontro è destinato a rendere vere come autostruttura, come Ragione unitaria e reale (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio 1817).
[10] Rino Genovese, Figure del paradosso Filosofia e teoria dei sistemi 2, Liguori Editore 1992, p. 14.
[11] Paul K. Feyerabend, Contro il metodo, Feltrinelli Editore, Milano 1979.
[12] Ritengo che abbia poco senso esprimere un concetto di approssimazione se non si può determinare il contenuto del traguardo ad essa relativo: in questo caso, la vera visione della natura che nessuno possiede. Il pragmatista afferma che una descrizione teorica è vera quando si trova in accordo con la realtà, e la stessa cosa affermerebbe chiunque si servisse della logica ordinaria; tuttavia il pragmatista non intenderebbe la stessa cosa che intenderebbero altri con l’uso della parola accordo e realtà. Sarà istruttiva la definizione che il filosofo William James dà di accordo: “..può significare soltanto essere guidati o direttamente ad essa (realtà) o nelle sue vicinanze, o essere posti in un contatto così funzionale con essa da poterla manipolare direttamente, o da poter manipolare qualcosa ad essa connesso meglio che se si fosse in disaccordo”. (Citazione da Pragmatism: a new name for some old ways of thinking. Lezioni di Filosofia tenute da William James , Longmans, Green & Co., 1907, pag. 212).